Sollevare lo sguardo. Storia di Leymah Gbowee, Nobel per la pace

23
Apr

Preparando a febbraio un esame di storia dell’Africa, uno dei manuali conteneva un breve capitolo sulle vicende della guerra civile scoppiata in Liberia nel 1989, fino alla risoluzione avvenuta nel 2003. Il caso ha voluto che per questo numero di Vita Nuova mi sia stato proposto di scrivere della vita di Leymah Gbowee, una donna liberiana che ha dedicato le proprie energie alla cura delle vittime della guerra. Queste donne vittime di violenze, vedove, orfane… si sono unite a lei dando vita a una rete di costruttrici di pace, protestando contro il potere, riuscendo infine a porre fine alla guerra. Nel 2011, assieme a Ellen Johnson Sirleaf (presidente della Liberia dal 2005 e prima donna eletta come capo di stato in Africa), Leymah Gbowee è stata insignita del Premio Nobel per la pace, “per la battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace”. Nel capitolo del manuale d’esame sulla Liberia Leymah non viene mai menzionata: ECOWAS, ONU, Stati Uniti… secondo quanto è scritto, la guerra è stata risolta grazie ai soli interventi di istituzioni esterne, mentre la popolazione liberiana subiva inerme. Ma la storia di Leymah Gbowee dimostra che non è andata così.

 

Contro guerra e violenze

Quando Taylor occupa la Liberia nel 1989, Leymah ha solo 17 anni: è una ragazza normale, ha conseguito il diploma e si sta preparando a frequentare la facoltà di Medicina. Le piace comprare vestiti, uscire di nascosto e divertirsi con i compagni di scuola. “Avevo tutta la vita davanti: avrei studiato, lavorato, mi sarei sposata, avrei avuto dei figli. Avevo diciassette anni e potevo fare tutto quello che volevo. Il mondo era mio”. Nel giro di sei mesi i suoi sogni, i sogni di un’intera popolazione, svaniscono. È scoppiata la guerra civile.

All’inizio Leymah non ha paura, è arrabbiata. La sua vita serena è irrimediabilmente stravolta; ne imputa la colpa non solo ai ribelli, ma alla sua stessa famiglia che non è stata in grado di proteggerla. Questo sentimento la logora per molto tempo. Le truppe di Taylor portano distruzione e morte, e Leymah deve farci i conti tutti i giorni. “A diciassette anni non si è abituati a pensare alla morte, specie alla propria. Ma adesso ne ero circondata e fui costretta a rendermi conto che poteva arrivare in ogni momento”.

Fuggita in Ghana assieme alla madre e alle sorelle, sosta qui per mesi, vivendo in una sorta di limbo. Intanto in Liberia sembra stiano negoziando la pace, così Leymah decide che è il momento di tornare, certa che il peggio sia passato. Ma si sbaglia: la distruzione che si è lasciata alle spalle due anni prima c’è ancora. Vivendo nella precarietà, Leymah incontra Daniel: sembra capace di colmare la sicurezza che le manca, rivolgendole attenzioni, comprandole cibo e regali… Purtroppo non ci vuole molto prima che Daniel riveli la sua natura opprimente e aggressiva, infierendo su di lei.

Nel frattempo, viene ammessa in un programma dell’UNICEF che affianca alcune profughe sierraleonesi: per lei è una rivelazione! I dialoghi che scambia con queste donne mettono in luce la sua propensione all’ascolto: la forza e la capacità comunicativa con cui riesce ad entrare in contatto con i loro traumi la aiutano a comprendere che questi stessi traumi sono anche i suoi. Il percorso di riscatto non è veloce: deve assistere a un’altra falsa pacificazione, a nuovi scontri, a un’altra fuga in Ghana, a continui maltrattamenti. “La ragazza che ero a diciassette anni non avrebbe mai accettato di essere trattata così. Non so spiegare come sia possibile, ma la forza e la sicurezza di sé possono sparire. Avevo come l’impressione che tollerare un rapporto violento, soffrire e avere tanti figli fosse il mio destino”. La svolta avviene nel 1997, quando una proposta di lavoro la convince a tirare fuori la forza di andarsene: riesce a mollare Daniel per tornare a casa a realizzare i suoi sogni.

 

Donne che costruiscono la pace

Da quel momento Leymah non si è più fermata. Grazie a un nuovo progetto in un centro di sostegno rivolto a chi ha sofferto durante la guerra (THRP), inizia il percorso che la porterà a diventare una costruttrice di pace. “Costruire la pace significa guarire le vittime della guerra, restituire loro la forza e l’identità, farle tornare quelle che erano prima. Significa insegnare alla gente che un conflitto può essere risolto senza armi”. In tutto quello che fa nutre il desiderio di imparare e interrogarsi. “Il mio lavoro al THRP consisteva per lo più nell’aiutare a ricostruire vite e comunità spezzate, ma non sarebbe stato più sensato evitare che si spezzassero? Prevenire, invece che curare?”. Le ore dedicate agli incontri dal THRP non sono sufficienti, così propone alle donne di iniziare a vedersi anche la sera: si presentano in molte, desiderose di raccontarsi per la prima volta, liberarsi della rabbia e del senso di colpa che le ha soffocate per anni. “Vi sembra una cosa da poco che queste donne riuscissero a parlare apertamente? Non lo era. Era una novità assoluta. Ognuna era sola con il proprio dolore. Avevo trovato un modo per tirare tutto fuori”.

Quando ormai è pronta per fare un passo in più, incontra Thelma Ekiyor, avvocatessa nigeriana: unendo le idee, nel 2001 fondano la WIPNET, una rete per la costruzione della pace dedicata alle donne, da sempre escluse dalle negoziazioni. L’empatia e il carisma di Leymah attirano donne di tutte le nazioni vicine: il progetto mostra subito il suo immenso potenziale per dare una svolta nella risoluzione della guerra. “Nessuno stava facendo nulla di simile in Africa: puntare soltanto sulle donne e soltanto sulla costruzione della pace”.

Nel 2002 la situazione diventa insostenibile: i guerriglieri continuano a seminare terrore nel Paese. Leymah, coordinatrice della WIPNET, si impegna per raccogliere attiviste, tessendo nuove reti con movimenti di donne musulmane. “Non era sempre facile. Le donne che avevano sempre sofferto erano arrivate a un punto in cui guardavano a terra invece che avanti. Grazie a noi tuttavia cominciarono a sollevare lo sguardo e ascoltare”. Alla fine dell’anno, organizzano la prima marcia pacifica lungo la via principale di Monrovia: in più di duecento cantano davanti alla folla i loro obiettivi di promozione dell’uguaglianza e piena partecipazione delle donne.

La guerra dura da tredici anni e le pressioni per raggiungere una tregua non sono sufficienti. Grazie alla marcia pacifica la WIPNET ha acquistato visibilità, incoraggiando Leymah a fare diverse dichiarazioni pubbliche per ottenere la pace a nome di tutte le donne. Nell’aprile 2003 si raccolgono in un’adunata sui gradini del municipio: un migliaio di attiviste vestite di bianco e decise a non spostarsi fino a quando non verrà firmata una tregua; crescono talmente di numero da installare un presidio, senza cedere né arrendersi. “Eravamo oltre duemila. Commercianti. Rifugiate. Alcune avevano camminato per ore e portavano abiti così vecchi che non erano più nemmeno bianchi”. Quando a giugno iniziano in Ghana i negoziati tra Taylor e i ribelli, Leymah decide di andare lì a fare sentire da vicino la sua protesta. Sono giorni di trattative inutili, mentre a casa la gente continua a morire: l’indifferenza di questi signori della guerra porta Leymah a prendere una decisione drastica. Raccoglie le donne che sono con lei e si siedono davanti al luogo dove si stanno svolgendo i negoziati: si uniscono tutte per le braccia, con l’intenzione di non muoversi fino a quando non verrà firmato un accordo di pace. “Teniamo questi delegati in ostaggio. Così proveranno quello che sta provando la nostra gente a casa”. Insieme, riescono a smuovere definitivamente la situazione. “Il nostro gesto segnò l’inizio della fine. L’atmosfera da circo che si respirava ai colloqui s’incupì. I negoziati procedettero speditamente. L’11 agosto Charles Taylor rassegnò le dimissioni da presidente e accettò di andare in esilio”. Leymah e le donne liberiane ce l’hanno fatta!

 

La pienezza è all’orizzonte

Il percorso di Leymah non è stato breve né facile. Per anni ha vissuto sulla propria pelle violenza e umiliazione, ha impiegato tempo per guarire e iniziare a lottare. Altre donne come lei avevano accettato passivamente questa condizione. Leymah è riuscita ad andare oltre: sacrificando il tempo per la famiglia, ha raccolto i pezzi e si è messa in gioco per aiutare le altre a fare lo stesso; ha dato il via a un processo che nessuno prima era stato in grado di fare: la prima rete di donne impegnate nella ricostruzione del popolo liberiano, nella costruzione della pace. Il lavoro non è ancora finito, e ora è tempo di ricostruire, villaggi e strade, corpi e animi spezzati. Nostro compito è continuare a raccontare la costanza e la pazienza che l’hanno spinta a non arrendersi di fronte ai primi ostacoli, nonostante le naturali difficoltà che possono sorgere quando si cerca di far collaborare centinaia di donne con vissuti differenti, ma unite sotto un obiettivo comune. “Queste sono le donne di pace! Hanno fatto una grande impresa. Grazie madri, grazie”.

Arianna Bertuzzo

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