Piccole chiese crescono…

10
Ott

Nel giardino di simboli a casa di Madre Giovanna

Scoprire che anche negli edifici sacri sono presenti tipologie più legate ai ruoli maschili e altre più legate alle caratteristiche femminili è un’esperienza che arricchisce e apre nuove finestre allo studio e alla riflessione. Le grandi cattedrali sono una rappresentazione terrestre della Gerusalemme celeste: come tutte le grandi città sono articolate, ardite: alte navate come strade che portano al centro, grandi spazi per lo svolgimento di molteplici funzioni, sfarzo di marmi e pietre preziose come descritto nell’Apocalisse, il trono per chi su questa terra rappresenta il grande re, decorazioni spesso sontuose che celebrano il Signore dell’universo. Organismi complessi com’è complessa l’organizzazione di un regno. Ma se entri in una cappella o in una piccola chiesa o in un oratorio – che sia di un palazzo, di un castello, di una congregazione o di un monastero – entri in un’altra dimensione. E non è solo un discorso di ampiezza: è una differente concezione dello spazio sacro. Già il termine “cappella” ci suggerisce l’idea di qualcosa di piccolo, di grazioso. Se la cattedrale è l’immagine della Gerusalemme celeste, la cappella è invece il centro ideale, intimo dell’organismo di cui fa parte: di più, ne è il cuore. Ed è spesso un cuore di donna. Chiunque metta piede nella cappella di un convento o di un monastero femminile lo percepisce: dai pizzi e dai ricami dell’altare e degli arredi, ai fiori freschi che in ogni stagione abbelliscono e profumano l’interno, dalle piante verdi che suggeriscono l’idea della continuità della vita, alla cura amorevole dei dettagli, frutto della fantasia e della creatività delle sorelle. Ovunque aleggiano una luce leggera, un’atmosfera che ti avvolge, un amore coltivato con continuità, in uno spazio che le donne hanno saputo con tenacia ritagliarsi come proprio, per rispondere alla necessità di un “loro” rapporto con l’infinito, dove pregare e cantare le lodi a Dio anche attraverso la bellezza della loro originale inventiva. Ovunque, guardandoci attorno, camminiamo in un giardino di simboli, che raccontano il sacro con il linguaggio delle immagini.

Ho avuto la gioia di visitare recentemente a Gerusalemme una cappella inaugurata solo da pochi mesi. È il dono che una coppia di giovani architetti polacchi, Joanna Mazus e Krzysztof Sokolovski, hanno voluto porgere alle sorelle salesiane che lì operano per celebrare il loro fidanzamento. Di comune accordo, l’hanno voluta chiamare Cappella Shalom, Cappella della pace, e per l’inaugurazione lo spazio azzurro-dorato del piccolo edificio è risuonato di suoni e voci di un piccolo gruppo di musicisti cristiani, ebrei e musulmani. Insieme, nella dilaniata Gerusalemme terrena: per rispondere al bisogno e alla speranza di ricreare almeno per un attimo l’armonia della Gerusalemme celeste dove l’unità e la concordia sono le fondamenta. Col suo bellissimo sorriso suor Mimì, accompagnando me e le mie due amiche Maria Teresa e Renata, ci ha sussurrato, lasciando che fosse poi il silenzio a parlare: “È una casa di preghiera per tutte le nazioni, una preghiera per la pace tra i popoli. L’abbiamo chiamata così e l’abbiamo dedicata all’unico Dio e a tutte le genti del mondo. Abbiamo pregato usando colori e pittura”. La porta è piccola e si apre nell’assolato giardino a pochi passi dalle mura della città vecchia. Ma appena la varchi, entri in un piccolo mondo di silenzio, di pace, di contemplazione. Ai lati dell’ingresso due montagne dipinte sulla parete e pochi scalini che ti fanno scendere verso il pavimento. Questo ha il colore e la trasparenza dell’acqua, dove tutto si specchia: un battesimo che si rinnova ogni volta e che ogni volta ti rende una persona nuova. Tutto attorno i colori ocra-rossiccio e grigio-perla sembrano continuare nell’interno i colori dell’aspro paesaggio della terra di Israele, ma la ricchezza dei simboli, la loro presenza discreta e la geometrica bellezza, conducono il pellegrino-fedele all’astrazione sublime della divinità. Tante stelle di mosaico dorato e di un bianco evanescente splendono ovunque: ma… sono stelle o angeli? E questo che vediamo in alto è il nostro universo, quello che ci circonda, compresa la Terra, scura ma colpita da un raggio di luce, o sono già “cieli nuovi e terre nuove”? Più ci avviciniamo al tabernacolo e più trionfa l’oro del presbiterio, come nei mosaici bizantini: una sinfonia di riflessi luminosi che vuole trasformarsi, come in una sinestesia, in un’armonia di suoni. Quello “spirituale dell’arte” tanto amato dal maestro della pittura astratta Vasilij Kandinskij. Su tutto domina il circolo, la figura perfetta: l’infinità di Dio. Ci racconta con i suoi occhi ridenti suor Mimì: “Il giorno della consacrazione una mosca è entrata ed è volata direttamente verso la luce del presbiterio. È andata a sbattere sul muro di luce, proprio come noi che lo potremo attraversare solo dopo la morte”. A noi pellegrine non resta che attraversare il trasparente mare azzurro del pavimento per ritrovare la terra d’Israele.

Ho rivissuto un’esperienza di luce e spiritualità, visitando la cappella della Casa madre di Breganze, dedicata al Sacro Cuore di Maria. Dopo tante frequentazioni in occasione delle celebrazioni, in una torrida mattina di luglio dell’ultima estate ho voluto inoltrarmi, come fosse la prima volta, per incontrare Madre Giovanna nella luminosa casetta, dove le “sue” Orsoline custodiscono con amore la loro fondatrice. Un piccolo mondo di donne – di Maria, di Angela, di Giovanna e delle Orsoline tutte – che ti accoglie sobrio e ospitale e dove ti sembra subito di udire le parole di Maria: “L’anima mia magnifica il Signore”, di Angela Merici: “Tenete l’antica strada… e fate vita nuova”, e di Giovanna Meneghini attraverso le Costituzioni: “E la donna… membro vivo e operoso nella comunità dei credenti, sia testimone del Risorto con la parola e con la vita”. Perché il vecchio e il nuovo qui si saldano con armonia attraverso lo scorrere della luce. Il nostro occhio è naturalmente attirato dalla circolarità dell’altare su cui spiove la luce dall’alto, ma anche dal bianco di classico nitore della cappella della fondatrice: è questo l’antico presbiterio dell’oratorio originale, l’antica strada, da cui, come in un ramo verde, crescono i nuovi fiori. È introdotta da una sottile colonnina dorica che fa da delicato diaframma con il resto dell’edificio e prende luce dal caleidoscopio di intensi colori delle tre vetrate di Piero Modolo, che, nella loro astrazione, rievocano alcuni momenti decisivi della vita di Giovanna: l’origine, il sogno, il mandato; riflettendosi nel pavimento, creano un effetto-specchio che richiama la trasparenza e la mobilità dell’acqua. Per una felice coincidenza, i colori – gialli, arancioni, rossi, azzurri, verdi – il gioco di linee rette, diagonali e curve che si intersecano in un gioco dinamico di forme, suggeriscono la vivacità cromatica di Kandinskij e, anche qui, nella danza dei colori che variano col variare della luce solare, sembrano generarsi tutto intorno vibrazioni musicali.

E con sommessa melodia cantano il loro grazie a Giovanna anche gli ex voto, che, come una strada, convergono verso la semplice, sobria, bianca lapide. Piccole forme irregolari, colorate, che una gentile mano femminile ha dipinto nel centro con minuscoli disegni dalla forte valenza simbolica: il candelabro, la lucerna… è il pentagramma di un sommesso sottofondo musicale per il fedele in raccoglimento, messo in contatto con la fonte stessa della Grazia da cui Giovanna ha attinto, il tabernacolo. Là nel presbiterio esso brilla con la sua forma di stella o di fiore a otto petali, fatti di agata, la pietra semi-preziosa portata dal Brasile e dall’Africa, le terre delle missioni orsoline.

Tutto nella piccola chiesa trova una sua unità: il numero otto del tabernacolo si ripete nel grande otto del tiburio e in quello della lanterna che si alzano sopra l’altare facendo spiovere ovunque la luce, che inonda l’intera navata. Nella simbologia cristiana il numero otto ha un forte legame con la risurrezione di Cristo: l’octava dies (ottavo giorno) è il nuovo giorno, l’inizio di un nuovo tempo in cui l’umanità inizia il suo cammino di rinascita dopo la morte e la risurrezione di Gesù. L’ottagono, inoltre, è una figura intermedia tra il quadrato, simbolo della dimensione umana e quindi dell’umanità di Cristo, e il cerchio, simbolo della dimensione divina. È una simbologia che torna frequentemente nell’architettura sacra: sono ottagonali le piante dei battisteri, proprio per il significato di rinascita e di salvezza che il battesimo ricopre; lo sono i tiburi che, innalzandosi verso l’alto, richiamano al dialogo con il divino. Nella chiesa di Madre Giovanna mi piace anche pensare che il numero otto richiami il nuovo cammino che la fondatrice ha impresso alla sua piccola famiglia, costruito nella sobrietà, nell’apertura agli altri, nella promozione della donna. L’umano che anela al divino: l’altare con le facce quadrate del cubo di marmo che nel paliotto rivolto all’assemblea raffigura la croce-albero della vita. Ed ecco la figura del cerchio, che torna nella base del presbiterio, esattamente al centro dell’ottagono, e che da lì si allarga come onda, abbracciando lo spazio dell’assemblea nel gioco di sfumature del marmo rosa.

L’intersezione fra il presbiterio e lo spazio dei fedeli è segnato dalle statue lignee della Vergine Maria e di Angela Merici, che mostra a noi il libro aperto della regola. Sì, il legno: assieme al marmo è il materiale con cui la chiesa è arredata e decorata. Di legno sono i banchi, di legno le statue, di legno il bellissimo crocifisso che ha già il volto composto e la serena maestà del risorto, e che spalanca le sue braccia da una croce bianca scavata in una nicchia della parete. Di legno è il recente medaglione dedicato a san Giuseppe. Il materiale povero per eccellenza, che gli artisti trentini sanno lavorare con maestria e antica sapienza e che ha in sé, nella sua semplicità, il calore della vita che resiste. Il legno tanto caro alla spiritualità francescana a cui appartiene Angelo Polesello, l’architetto che ha curato l’ampliamento della chiesa.

Dalle soglie del presbiterio, lo sguardo di Maria e di Angela abbraccia tutto lo spazio dei fedeli fino alla leggera tribuna-matroneo, fino al fondo, aperto sul verde chiostro. E, ancora una volta, l’unità degli spazi è segnata dalle vetrate, presenti lassù in alto e splendenti in basso verso il giardino: una continuità di luce e di vita, l’invito a una sollecitudine insieme operosa e contemplativa, piena di fiducia nell’azione di Dio e nell’opera di donne e uomini. Per rispondere al sogno e alla speranza di Madre Giovanna.

Chiara Magaraggia

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