Nella terra delle alleanze. Tutto è possibile quassù

30
Ago

Terra di alleanze. Qui, lungo i secoli, fedi diverse si sono incontrate e varie culture si sono mescolate, senza confondersi ma riconoscendo l’importanza di allearsi per il bene comune. Alleanze di questo tipo sono quanto mai urgenti oggi. Vorrei utilizzare come simbolo il “Monte dell’Alleanza” che si innalza in questa terra. Il Sinai ci ricorda anzitutto che un’autentica alleanza sulla terra non può prescindere dal Cielo, che l’umanità non può salire sul monte per impadronirsi di Dio”.

Venerdì 28 aprile 2017. Ascolto il discorso che papa Francesco sta pronunciando all’Università di Al Azhar, al Cairo – Egitto, davanti ai rappresentanti di differenti confessioni religiose. E la memoria in un istante mi riporta a qualche anno fa – e sembra purtroppo passato un secolo – quando ho potuto assaporare la dolcezza della “terra delle alleanze”.

Tutto è cominciato quassù. Lo splendore delle stelle, così grandi e luminose da stampare sul suolo desertico le nostre ombre come fosse giorno, un silenzio così profondo e perfetto che quasi avevamo timore di appoggiare i piedi a terra per non guastarlo, la sagoma imponente della montagna che si stagliava davanti a noi sullo sfondo di un limpido infinito orizzonte: in questi spazi è impossibile per l’uomo non percepire la presenza di quel sacro che già in tempi immemorabili qui si è manifestato. Era ancora notte, ma il cielo già cominciava ad assumere quel “dolce color d’oriental zaffiro” che annuncia l’alba, quando io e Maria Teresa abbiamo cominciato a salire gli ultimi ottocento ripidi scalini scavati nella roccia e corrosi dal vento, che ci avrebbero portato sulla cima del Sinai, il Gebel Musa (il Monte di Mosè), 2285 metri a picco sull’altopiano granitico.

Avevamo dormito al Monastero di santa Caterina, fortezza del deserto, oasi di pace e di concordia, che niente e nessuno aveva mai violato nei suoi 1500 anni di vita, né la conquista araba né la spedizione di Napoleone né la Guerra dei sei giorni. Con quanta amarezza, perciò, nell’aprile del 2016 ho appreso la notizia dell’attentato con cui un commando di terroristi ha sparato, uccidendo e ferendo le sentinelle poste, proprio per le minacce ricevute, a protezione del Monastero. Eppure noi qui abbiamo respirato un’atmosfera speciale: l’ospitalità dei monaci ortodossi che ci hanno aperto le porte del piccolo accogliente ostello e della cucina, dove veniva preparata solo per noi una calda zuppa di fave, offerta con miele, olive, torrone di sesamo, formaggio caprino; i beduini musulmani da più di un millennio fedeli custodi, collaboratori indispensabili della comunità monastica, disponibili a trasportare i viaggiatori sui loro docili dromedari; la benevolenza verso lo Stato di Israele che ha restituito all’Egitto la penisola del Sinai occupata nel 1967. Anche le dolorose lacerazioni fra il cristianesimo di Oriente e di Occidente sono sempre state lontane: dopo lo scisma del 1054 che ha separato ortodossi e cattolici, qui ha regnato il rispetto reciproco, al punto che l’abate, con una scelta super partes, non è soggetto ad alcun patriarcato e nella venerazione delle reliquie di santa Caterina d’Alessandria si trovano riuniti ortodossi, cattolici, copti, anglicani. Qui la fortissima carica spirituale ha saputo vincere su ogni conflitto. Fino a oggi…

Tutto è davvero cominciato quassù. Lo si percepisce entrando dentro alla cinta muraria del monastero nel verde fiorito giardino immagine dell’Eden, fermandoci davanti al pozzo tuttora in funzione, che per la tradizione è quello dove Mosè ha incontrato le figlie di Ietro, salvandole dalla violenza dei predoni. Lo si respira sostando quasi intimoriti davanti a quella verde acacia del deserto dalla larga chioma e dai rami aguzzi (crategus sinaiticus spinosus), così pungente da essere chiamata “roveto”. Sì, siamo davanti al “roveto ardente”, lì presente da secoli, tanto che la pellegrina Egeria già nel IV secolo ce ne parla nel suo prezioso Itinerarium; invano, tramite talea si è cercato di far germogliare in altri luoghi qualche rametto. È il roveto, che ardeva senza bruciare, da cui la Voce rivelava a Mosè “Io sono colui che sono”. La vicina bianca cappella è dedicata a santa Maria del roveto ardente, associando per la prima volta la Vergine Maria con il biblico arbusto.

Proprio qui a santa Caterina, diffondendosi poi in Grecia, a Bisanzio e in Russia, nasce l’icona della Madre di Dio del roveto ardente: al centro di una stella a otto punte, formata da un rombo verde-azzurro sovrapposto a un rombo rosso, appare l’immagine della Madonna. Nel linguaggio allegorico-simbolico dell’icona, il verde rappresenta l’essenza vegetale del roveto e della terra, il rosso le fiamme divine che non lo distruggono. Nelle punte rosse i simboli degli evangelisti, nelle punte blu gli angeli dell’Apocalisse, ai quattro angoli ecco le visioni profetiche di Isaia, Ezechiele, Giacobbe, anticipatrici della venuta di Cristo e, in alto a sinistra, proprio l’immagine di Mosè davanti al roveto ardente. Al centro, con l’abito d’oro come la luce divina, la Madre di Dio, che tiene in braccio Gesù, presenta due immagini fortemente simboliche: la scala che collega terra e cielo e, sul cuore, il tempio-chiesa che contiene Cristo. È la storia della salvezza dipinta in una tavola, con un messaggio preciso: lo Spirito Santo, incarnandosi in Maria, arde in lei come un fuoco che non brucia, segno di carità inesausta. Il roveto-Maria diventa così oggetto di perpetua venerazione.

Contemplando qualche settimana fa il grandioso spettacolo delle vetrate medievali di Notre Dame a Parigi, ho messo a fuoco il riquadro dedicato proprio all’episodio del roveto ardente: nell’inconfondibile colore azzurro-zaffiro che contraddistingue le vetrate del XII-XIII secolo, circondato da una mandorla color rubino, Mosè, inginocchiato, ascolta la Voce, riprendendo l’iconografia del Sinai. Ed ecco la prodigiosa rivelazione: al centro della chioma rosso fuoco del roveto appare un volto umano dai tratti inconfondibili. Non un piccolo rovo, ma un albero ad alto fusto, e, dentro, il viso di Cristo, come nell’icona. Era l’età delle crociate: forse è stato proprio al seguito di questo incontro tra Medio Oriente ed Europa che è arrivata a Parigi, rielaborata secondo i canoni iconografici dell’arte occidentale, la spiritualità del monastero di santa Caterina del Sinai.

L’aurora aveva trasformato le rocce più alte del Sinai in una tavolozza di rosa fucsia, rosso scarlatto, arancione acceso, creando un contrasto fortissimo con le parti ancora in ombra. Uno spettacolo che cambiava ad ogni batter di ciglia, con la luce che rapidamente dilagava verso il basso. Davanti a noi la scala di pietra serpeggiava con tornanti ripidi che mettevano a dura prova le gambe e il respiro. Forse una scala simile a questa è quella sognata da Giacobbe o descritta da san Giovanni Climaco, abate del monastero di santa Caterina nel VII secolo. E, secondo la tradizione islamica, di qui, cavalcando il cavallo Boraq, sarebbe passato il profeta Maometto nel suo viaggio notturno (isrà) di cui parla la sura XVII del Corano. Ogni pietra qui ha il sapore e la memoria del sacro.

A quasi metà della salita, girandoci per contemplare lo spettacolo del deserto montagnoso, vediamo in basso, brillante per un raggio di sole che l’ha colpita, una minuscola oasi: una macchiolina verde immersa nella cascata dorata delle rocce. È un altro luogo di manifestazione del divino: nella piccola grotta il profeta Elia fuggiasco si era fermato per passare la notte. E lì la Voce si fa sentire anche a lui: “Esci e fermati sul monte davanti al Signore”. Ed è nella brezza della sera che scende dal Sinai, che Elia riconosce la presenza divina. La scoperta della piccola oasi ci dà un po’ di forza per proseguire e così, mentre progressivamente il caldo ci fa togliere giacche e maglie, gradino dopo gradino la roccia scompare dai nostri occhi, lasciando posto ad un cielo azzurrissimo. Stiamo arrivando sulla cima. Una piattaforma sospesa nel vuoto, dove, nel silenzio ritmato dal sottofondo del vento, ci sembra davvero di respirare, assaggiare, toccare la brezza divina. Una cappella è stata costruita fin dal IV secolo, una costruzione semplice, discreta, quasi timorosa di rompere l’atmosfera sospesa tra terra e cielo. E lì, sotto gli scalini d’ingresso, vediamo sagome scure: sembrano zaini e sacchi a pelo. Lo stupore non dura a lungo: due ragazzi si materializzano davanti a noi, uno salutandoci con “Salaam”, l’altro con “Shalom”. Ci sembra di sognare. Ricambiamo con il nostro universale e familiare “Ciao”. Un ebreo e un musulmano hanno trascorso accanto la notte sulla cima del Sinai, dove si sono casualmente incontrati. E, per la par condicio, siamo arrivate noi, pellegrine della conoscenza senza confini né muri. Io e Teresa viviamo un momento di stupita commozione. Allora questo è davvero possibile? A noi è successo. Perché tutto è possibile quassù.

Era da un po’ che la figura di Caterina di Alessandria mi inseguiva. Forse perché da studentessa dell’Università di Padova l’ho vista tante volte sul sigillo dell’ateneo presente in tutti i documenti ufficiali, soprattutto nel diploma di laurea. Ma che cosa lega Caterina allo Studio patavino sorto nel lontano 1222 e al suo significativo e sempre moderno motto: Universa universis patavina libertas (tutta intera, per tutti, la libertà nell’università di Padova)? Eccolo, il sigillo: su un campo con nove stelle sono impresse le immagini di Cristo redentore benedicente, con lo stendardo e la croce, alla sua destra è santa Caterina che porta la palma del martirio e la ruota, strumento del suo supplizio. Inizio le indagini e vengo a scoprire che Cristo e santa Caterina d’Alessandria erano i patroni rispettivamente delle due facoltà, quella degli artisti e quella dei giuristi, nelle quali fino al Settecento era articolato lo Studio padovano. Ma non basta: anche la Sorbona ha in lei la sua patrona, al punto che le gioiose feste dei goliardi di Parigi iniziavano proprio il 25 novembre, data della sua festa. Fin dal medioevo, inoltre, la corporazione dei sarti l’ha voluta come protettrice, tanto che le apprendiste sarte venivano chiamate “le caterinette”.

Anziché appagarmi la spiegazione non fa che aumentare la curiosità sul personaggio di Caterina, in assoluto una delle sante predilette dagli artisti di tutti i secoli: Caravaggio, Raffaello, Correggio, Tintoretto, Artemisia Gentileschi… tutti affascinati da Caterina! Ciò che sempre mi ha stupito è come tanti pittori raffigurino un soggetto chiamato Le nozze mistiche di Santa Caterina. Uno dei più belli è quello dipinto dal veneziano Lorenzo Lotto agli inizi del 1500, tutto intonato a colori squillanti, con effetti di grande preziosità. In un’ambientazione domestica, con i costumi adeguati alla gioiosa circostanza, si celebra il matrimonio di santa Caterina, alla quale il bambino-sposo, in braccio a Maria dallo sfolgorante abito rosso con sopravveste di broccato dorato dai risvolti blu, sta infilando l’anello nuziale. La sposa indossa un sontuoso vestito bianco con ampie maniche a sbuffo ed è resa splendente dalla magnificenza dei gioielli indossati, tra cui una corona che si intreccia al filo di perle con pendente di rubino dell’acconciatura, in pendant con gli orecchini di perla a goccia.

È lei la fanciulla di Alessandria, studiosa di filosofia e di arti liberali, così colta che, su ordine dell’imperatore Massenzio, per convincerla ad abbandonare la fede cristiana ben cinquanta fra i maggiori sapienti provenienti da differenti province dell’impero romano l’hanno sfidata su temi di fede e di morale. “Caterina disputava con sapienza e confutava i loro argomenti con ragioni evidenti: rimasero stupiti e, non trovando argomenti da contrapporre, restarono muti e si misero poi amichevolmente a discutere con lei” (Jacopo da Varazze, Legenda Aurea). Come avviene per altre leggende di martiri, non bastarono molteplici supplizi, fra cui la ruota dentata, a persuadere la giovane, finché “fu pronunciata per lei la sentenza di decapitazione. Portata sul luogo designato, si sentì una voce che diceva: Vieni mia diletta, mia sposa! (…) Gli angeli presero il suo corpo e lo trasportarono fin sul Monte Sinai” (Legenda Aurea).

Le tessere del puzzle cominciano ormai a comporre la complessa simbologia di Caterina: donna sapiente, donna coerente, donna convincente, donna di fede e di pace. Talmente innovativa che è scelta come patrona degli studi di quelle università che pure per secoli hanno negato alle donne l’accesso. Un ultimo “mistero”: nel grandioso affresco La scuola di Atene” con cui Raffaello nelle stanze vaticane in una mirabile sintesi celebra, attraverso le figure dei filosofi antichi, i vertici del pensiero umano, viene raffigurata una misteriosa sfuggente figura femminile di bianco vestita, ancor oggi senza nome. C’è chi ha fatto il nome di Caterina, chi quello di Ipazia, filosofa, matematica, animatrice della grande biblioteca di Alessandria d’Egitto e anch’essa vittima del fanatismo. I ruoli sono invertiti: è l’intolleranza dei cristiani vincitori, pochi anni dopo Caterina, a sopprimere la voce libera e conciliante della sapiente Ipazia. Permane l’enigma sulla filosofa della Scuola di Atene

Sì, tutto è cominciato nella “terra delle alleanze”. E qui voci di donne di fedi di-verse sono risuonate, testimoni di concordia e di ri-spetto.

Chiara Magaraggia

Leave a Comment