Maddalena e Chiara: un mantello da apostole

01
Ott

Un percorso sorprendente nell’iconografia dell’apostola degli apostoli e di santa Chiara d’Assisi

Sono state piccole perle quelle sorridenti riflessioni/provoca-zioni che un’amica mi ha lanciato l’11 agosto scorso, in occasione del mio onomastico. Mi ha toccato l’augurio che il futuro possa essere sempre più sotto il segno di Chiara… insomma un mondo e un cristianesimo più femminile, com’era alle origini. Già: sarebbe proprio impensabile? Stavo in quei giorni leggendo lo stimolante volumetto di Adriana Valerio su Maria Maddalena, che in modo sintetico e documentato propone un excursus storico, artistico e interpretativo sulla discepola preferita di Cristo, a cui lo stesso Maestro ha affidato il compito di annunciare a tutti, Pietro compreso, la buona novella per eccellenza: la resurrezione. Una presenza, la sua e di tante altre donne (Marta e Maria, la Samaritana, la Madre), delineate con una personalità dai tratti specifici, particolarmente nel Vangelo di Giovanni, in cui alcuni teologi vedono un’impronta femminile: quella di Maddalena. Non è un caso che nella vasta produzione apocrifa uno dei testi più diffusi sia il Vangelo di Maria, lei, la Maddalena. Una presenza forte, fisicamente ed emozionalmente vicina a Gesù, la testimone attiva presente in tutte le fasi della Via Crucis, dalla via dolorosa alla scoperta della tomba vuota all’incontro con il rabbi risorto. Una donna che non ha paura di percorrere la strada del Calvario, che non si nasconde, come gli altri, per paura nei giorni della morte, che all’alba di Pasqua, prima ancora che splenda la luce del nuovo giorno, non teme di percorrere la strada deserta che porta al sepolcro. Come poteva la teologia al femminile non essere attirata da tale figura e non porsi l’interrogativo sul perché su Maddalena sia dapprima calata l’ombra, per poi assistere, nel corso dei secoli, a una metamorfosi della sua figura? Troppo ingombrante, lei, per una Chiesa nascente in cui si andavano formando gerarchie maschili? Troppo scomoda, perché donna, perché irregolare, perché troppo fuori dagli schemi femminili del tempo, non madre, non sposa, non sotto tutela maschile? Meglio spostare il baricentro della sua figura da apostola investita da Gesù stesso a indemoniata liberata, a peccatrice pentita, a prostituta redenta. Ma questo fa di lei una creatura passiva: gli stessi termini “liberata”, “redenta”, “perdonata” sono dei participi passati dall’indiscutibile significato passivo. Nello stesso momento in cui la focalizzazione viene sempre più posta sullo sguardo benevolo di Cristo, si priva Maddalena del ruolo fortemente attivo che riveste: basta rileggere i versetti di Giovanni per riscoprirlo: “Maria Maddalena andò al sepolcro, la mattina presto mentre era ancora buio e vide che dal sepolcro era stata tolta la pietra. Allora di corsa si reca da Simon Pietro”. Sono parole talmente famose, che si rischia di perderne la carica dirompente e rivoluzionaria: andò, vide, si reca di corsa. È una donna autonoma, che agisce da sola, senza appoggiarsi a nessuno, che riceve dal Maestro ritrovato un comando preciso: “Non continuare ad abbracciarmi i piedi, ma vai dai miei discepoli e dici loro…”. Sarebbe dunque così impensabile un ripensamento che porti a ridare a Maddalena- e con lei a tutte le donne – quel forte ruolo pastorale che Cristo stesso le ha conferito? Se lei per prima ha annunciato la Parola, perché ancora oggi non spetta anche alla donna la proclamazione del Vangelo? Non sarebbe ora di liberare Maddalena da quella patina di “Maddalena pentita” o peggio da quell’immagine di corpo seminudo penitente rivestito solo di capelli? Come sempre l’arte ci propone letture sfaccettate, talvolta fedeli all’interpretazione corrente, talvolta innovative e profetiche, come se l’artista scavalcasse le stesse indicazioni dei committenti. Ho sempre molto ammirato il modo con cui il fiorentino Piero di Cosimo dipinge la Maddalena: un volto bello, assorto e dolce insieme, i lunghi capelli non scomposti, ma ingentiliti da una semplice femminile acconciatura di perle, l’abito sobrio ed elegante; soprattutto colpisce il fatto che stia leggendo: è depositaria di sapienza; studia, legge per essere più profondamente testimone e apostola. Qualche anno prima uno dei grandi maestri del Rinascimento toscano, Piero della Francesca, dipinge su una parete del Duomo di Arezzo, la “sua” Maddalena, che nell’età in cui si proclama “la dignità dell’uomo” diventa un vero manifesto della “dignità della donna”. Non la rappresenta macerata dalla penitenza, non giovane tumultuosa e irruente e neppure traboccante di grazia leggera. Solo due grandi riflessivi occhi azzurri. Maddalena possiede una regalità fatta non di trono e di corona. La raffigurazione fisica vuole trasmettere un’interiorità fatta di dignità e di consapevolezza, una femminilità vista come forza, luminosità, capacità di amare. Ci colpiscono nell’abito soprattutto il panneggio, la monumentalità, l’ampiezza del mantello con la lucentezza del bianco e la forza ardente del rosso. Un mantello capace di accogliere, di proteggere, di donare. È proprio il mantello di Maddalena, così centrale e simbolico nell’affresco di Piero della Francesca, a farmi volare nel tempo col pensiero fino a condurmi davanti ad un altro mantello: quello di Chiara. Anche la sua figura è stata oggetto di oscuramenti e manipolazioni: memoria vivente e fedele dell’autentico messaggio dopo la morte di Francesco, è del tutto cancellata nella Vita scritta da Bonaventura da Bagnoregio e, fin dalla prima biografia, troppo ingabbiata tra mura protettive, troppo angelicata da una leggenda che, ingentilendone i tratti e i gesti, mira a toglierne la carica innovativa. Gli studi di Chiara Frugoni (Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi, Laterza), studiosa di iconografia medievale, partendo proprio dalle immagini più antiche di Chiara, antecedenti alle prime biografie, hanno contribuito non poco a ridonarcene una personalità autonoma e complessa. D’altra parte, uno degli episodi più conosciuti della sua vita ci narra di come da sola, con l’unica arma dell’Ostensorio, sia riuscita a fermare i saraceni che assediavano Assisi. Ma come: una donna che porta l’Eucarestia! Fondamentale è la grande tavola dipinta, custodita nella basilica di Assisi a lei dedicata, in cui spicca la grandezza della figura, privata di ogni grazia leziosa: un viso determinato, una veste cinerina con cordone stretto alla vita che non riprende il colore dell’abito nero delle monache, un corto velo dello stesso colore che le lascia libero il volto, il collo e la gola. E poi il lungo mantello, dello stesso colore del saio di Francesco. Ma sono le storie dipinte ai lati a guidarci. È un’adolescente, poco più che bambina, protetta dalle braccia della madre Ortolana, Chiara, vestita di un color rosso fiamma e un piccolo diadema tra i capelli quella che dialoga animatamente con Francesco e lo fa con i gesti espressivi delle mani e lo sguardo non intimidito fisso negli occhi di Francesco. Ma è nella celebre scena del taglio dei capelli che avviene il cambiamento: il piccolo diadema è ancora sui capelli, ma l’abito è mutato: ora indossa il mantello che diventerà uno dei segni distintivi. Nel medioevo indossare il mantello significava acquisire un nuovo potere. Il mantello protegge: porsi sotto il mantello di qualcuno significa ottenere aiuto e immunità; il mantello ripara il pellegrino nella lunga strada, diventa coperta su cui riposare, riscalda il povero (è celebre l’episodio di san Martino, ma anche quello di Francesco nell’affresco di Giotto ad Assisi), ripara il malato, copre pietosamente il defunto. Quasi tutte le opere di misericordia si svolgono simbolicamente all’ombra del mantello. Ecco, quel nome “mantello” – in latino “pallium” – avrà una sua evoluzione linguistica, fino a trasformarsi nell’aggettivo “palliativo”. E sappiamo quanto oggi si parli di cure palliative, quasi un ultimo pietoso mantello con cui offrire un’ultima dolce protezione al malato terminale. Anche a Chiara il mantello offrirà protezione: quando i parenti tenteranno, inutilmente, di strapparla dal suo dolce chiostro, verrà afferrata proprio per il mantello. Ma ci sono altri dettagli interessanti: Chiara si trova presso un convento benedettino tra le monache, ma lei non indosserà mai quella veste. Elabora una sua regola, originale e assolutamente nuova, la prima e l’unica regola totalmente di mano femminile, per la cui approvazione, anche se inferma, lotterà fino alla fine (ottenendola solo in punto di morte, come ci descrive una delle scene) soprattutto per salvaguardare quel “privilegium pauperitatis” – privilegio della povertà – che in parte l’ordine francescano aveva tradito dopo la morte del fondatore. Non si prevedeva clausura: Giotto stesso rappresenta Chiara che abbraccia pubblicamente il corpo di Francesco da poco spirato. La grande rivoluzione degli ordini mendicanti consisteva nel rifiuto di ogni comunità claustrale; hospitia non monasteria, strutture aperte dove non si vivesse di donazioni, ma del proprio lavoro, soprattutto manuale a cui Chiara, nel suo latino elegante, dedica un intero capitolo della regola: lei stessa, anche se costretta per molti anni a letto, filerà ininterrottamente seta e lino. Ed è di grande modernità il rifiuto di un’ascesi distruttiva e punitiva; anzi c’è in lei un grande rispetto per le esigenze e la bellezza del corpo, dedicando grande attenzione alla cura dei dolori e delle malattie di chi bussa a San Damiano, particolarmente a quelle dei tanti bambini di Assisi che a lei chiedevano un sorriso, una carezza, ma anche pane. Ed ecco che l’ignoto Maestro pittore ci dipinge Chiara sollecita che distribuisce il pane alle consorelle. Tutte indossano l’abito semplice e popolare delle “povere dame”, come lei con un tocco di femminile gentilezza, amava chiamare la sua piccola comunità. Un unico dettaglio la distingue: il lungo mantello. L’abito di apostola di solidale povertà.

Chiara Magaraggia

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