L’incanto di perdersi tra Pasqua e Natale

01
Feb

Ero curiosa, come sempre davanti a qualcosa di nuovo. E decisamente elettrizzata all’idea di “lasciarmi perdere” nei vicoli di Spaccanapoli e dei Tribunali, armata solo del mio inseparabile compagno di viaggio: un piccolo taccuino, dove annotare quei frammenti di vita, quei volti, quei dettagli, che la memoria altrimenti rimuoverebbe in fretta. Era da un po’ che volevo toccare con mano “il ventre di Napoli”, descritto con passione e con sofferenza da Matilde Serao, napoletana, giornalista, co-fondatrice del quotidiano “Il Mattino” e prima direttrice italiana di giornale. Siamo tra fine Ottocento e primo Novecento, in un’Italia dove con fatica le donne cercavano un ruolo attivo nella società e dove le prime copertine dei rotocalchi illustrati erano per le regine o per le donne fatali immortalate dai romanzi di D’Annunzio e dai ritratti di Boldini. E Matilde Serao, rotondetta, volitiva e autonoma, non incarna certo il modello di donna allora in auge. Prima di iniziare il percorso, mi concedo una sosta in un imperdibile locale napoletano, il Gambrinus, dove la Serao amava sorseggiare un buon caffè con il marito Edoardo Scarfoglio e gli amici: atmosfera elegantemente retrò, tutto specchi, statue, decorazioni dorate, salottini, ma soprattutto tempio delle più meravigliose creazioni della pasticceria napoletana. Babà, pastiere, profumate “delizie” al limone, sfogliatelle sempre calde di forno, uova di Pasqua dalle fantasiose decorazioni, di ogni formato, maxi, medio o mignon, sono lì a tentare anche i clienti più virtuosi. Ben visibile all’ingresso, mi colpisce una piccola torretta, tappezzata da colorati cartelli che in tante lingue e in tanti alfabeti riportano la scritta: CAFFÈ SOSPESO. Ne avevo spesso sentito parlare, ma non ne conoscevo il meccanismo. Così, alla cassa, chiedo come funzioni. La signora con il consueto brio napoletano mi spiega che devo solo infilare lo scontrino nell’ampia bocca della torretta: chi vorrà gustarsi una tazzurella, dovrà semplicemente infilare una mano, ritirare da dentro lo scontrino e andare al banco, come un cliente qualsiasi di uno dei più bei caffè italiani, senza che nessuno individui in lui un indigente. “Se invece il signore gradisce ‘nu babbà, s’accomoderà al bancone dei dolci. Il prezzo è lo stesso”. Rimango folgorata dalla signorile genialità del “caffè sospeso” e dalla discrezione con cui il gesto gentile viene compiuto, nel più totale rispetto della dignità di ciascuno. Ristorata nel corpo e nello spirito, mi avvio verso le intricate stradine meta del mio cammino. Matilde Serao ha saputo definire in modo perfetto la vita del vicolo, scorgendo in esso un’autentica società di mutuo soccorso: “Ogni vicolo è un centro di un piccolo commercio, spesso fatto di scambi e di aiuti reciproci; i bassi ospitano artigiani valenti ed ambiziosi del mestiere. Il committente li ritrova ogni volta che ha bisogno. È un genere di vita che non può trapiantarsi nei cortili o sui pianerottoli di case moderne. Questo spiega perché i napoletani si abbarbichino ai loro vicoli”. La cosa sorprendente è che perfino le opere dell’arte e dell’artigianato, dei grandi artisti o dei più modesti artigiani, si intonano a questa atmosfera. La coralità sembra sempre prevalere sull’individualità e l’insieme decisamente spicca sulle singole parti. Entro nella chiesa rinascimentale di Sant’Anna dei Lombardi, scrigno storico-artistico, inizialmente luogo di culto frequentato dai mercanti e dai banchieri lombardi e toscani, poi preferito dalla corte napoletana. Mi attende la “sacra rappresentazione” in terracotta del Compianto di Cristo morto (1492), particolarmente cara alla devozione del venerdì santo dei napoletani e così affine alla loro sensibilità: sette personaggi in grandezza naturale sono disposti a semicerchio intorno alla statua di Cristo morto, disteso sulla pietra dell’unzione, disposta perpendicolarmente alla scena, di cui diventa il centro e il fulcro. L’occhio percepisce inizialmente l’atmosfera corale di dolore, espresso con una gestualità decisamente teatrale ed espressionistica, che coinvolge attivamente lo spettatore, trasformandolo nel personaggio che chiude idealmente il cerchio. Solo in un secondo momento percepiamo i volti e le emozioni individuali: Maria, semi-svenuta a terra, sorretta da Maria di Salome e assistita dallo straziato Giovanni, che, con le braccia spalancate, sembra voler stringere in un unico abbraccio la Madre e il Figlio; alla destra dell’apostolo, con le mani congiunte, Maria di Cleofe, mentre Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, in posizione avanzata, sembrano proteggere il gruppo dei dolenti, aprendolo contemporaneamente alla nostra partecipazione. La più drammatica è la figura della Maddalena, che l’artista, lo scultore modenese Guido Mazzoni, coglie in una spettacolare posa dinamica: di corsa, con un urlo di dolore che stravolge il bellissimo viso e scompone i lunghissimi capelli che avevano asciugato i piedi di Cristo. Davvero qui “la mistica popolarecome si legge nell’Evangelii gaudium – accoglie a suo modo il Vangelo intero e lo incarna in espressioni di preghiera, di fraternità, di lotta, di festa”.

È stato scritto molto sulla “Napoli popolare” di Spaccanapoli, dei quartieri spagnoli, dei Tribunali: tanti laboratori artigianali che sono botteghe, salottini per ricevere gli ospiti o discutere di affari, altarini e tabernacoli – tanti! – dove accendere un lumino… e tutto si apre sulla strada, per cui è naturale vivere fuori il più possibile, in un pullulare di uomini, donne, bambini, ragazzi che sciamano di giorno come di notte fermi a parlare, o in movimento o a bordo di un rumoroso motorino; e ogni festa diventa occasione per illuminare insieme con luci multicolori vicoli, piazze, chiese e palazzi. Colpisce il numero elevato di edifici religiosi, di fastose dimore nobiliari, di facciate che ospitano i tanti istituti di assistenza, vicini a pizzerie, pasticcerie e ancora abitazioni, in questa continua coralità che ovunque contraddistingue la società napoletana. Ai tempi di Matilde Serao, il degrado, la sporcizia, la miseria imperavano, tanto da farle scrivere: “Ecco, qui tutto ha bisogno di risorgere e anch’io debbo sfoderare tutte le mie forze sociali ed individuali: ognuno dei miei cittadini (…) deve avere lavoro, salute, protezione, educazione, e tutti devono prendere un posto bello, nobile, forte, nella vita operosa ed efficace moderna. Oggi il risanamento del centro storico sta finalmente trasformando questi quartieri”. La rettilinea via dei Tribunali – l’antico asse urbano tracciato in età romana – dopo una sequenza di portici si apre a un imponente palazzo seicentesco, sede di una delle istituzioni caritatevoli più antiche, ininterrottamente attiva dal 1601, quando sette nobili napoletani vollero qui dedicarsi alla pratica delle opere di misericordia: da allora, qui ogni venerdì mattina continuano a riunirsi i rettori del Pio istituto. Nella chiesa è custodita una delle opere più stupefacenti di Caravaggio, mai rimossa dal luogo dove è stata posta nel gennaio del 1607. Ed è come se nei quasi 10 metri quadrati di tela dipinta si prolungasse la vita di fuori. Anche qui siamo in un stretto vicolo dei bassi, di sera, con la sola luce che si sprigiona dalla torcia di un chierico dalla camicia bianca, che sta rischiarando il trasporto del corpo di un uomo (ne vediamo solo i piedi lividi), forse morto ammazzato in un agguato malavitoso. Le opere di misericordia: in un crocicchio malfamato di Napoli si concentrano tutte le miserie e tutta la misericordia di cui l’uomo è capace. Un microcosmo di vita con tante ombre e un unico raggio di luce, capace però di far emergere il bene nascosto. Quando cominciamo a orientarci nel profondo chiaroscuro, corpi e volti emergono e ci raccontano spiccioli di storie che insieme compongono il mosaico della carità. Sulla destra le opere di dar da mangiare agli affamati e di visitare i carcerati sono concentrate in un singolo episodio, tratto da una vicenda narrata dallo scrittore latino Fabio Massimo: il vecchio Cimone, condannato a morte per fame e rinchiuso in una cella con un’unica finestra affacciata sulla strada, viene nutrito dal seno dalla figlia, da poco diventata madre. Solo chi la fame e la prigione l’ha provata davvero, come Caravaggio, poteva dipingere perfino le minuscole gocce di latte sulla barba di Cimone. Davanti a tale dedizione, i magistrati concedono la grazia al condannato e su quella tetra prigione innalzano un tempio dedicato alla dea della pietà. Misericordia e compassione non appartengono ad un unico tempo, né ad una sola religione. In pieno Seicento di Controriforma, il messaggio di Caravaggio appare scandaloso e rivoluzionario. Sulla parte sinistra del quadro irrompe la carità cristiana, raccontata nella storia di Martino di Tours, il santo del mantello donato all’ignudo, che qui impietosamente mostra in primo piano la sua schiena scoperta nel freddo della sera e che giace accanto a uno storpio, anche lui un infermo da soccorrere; e non manca la carità ebraica, impersonata dal biblico Sansone, a cui Dio stesso riempie di fresca acqua una mascella d’asino morto di sete nel deserto, mentre l’uscio di un “basso” si apre per ospitare un pellegrino in cerca di un alloggio dove passare la notte. Tante storie, che vengono da luoghi e tempi lontani e che si intrecciano nella sera napoletana. Sembra che solo Maria e il suo Bambino si accorgano di quanto succede: una Madonna popolare, senza trono, aureole o corone, affacciata dal cielo come da un balcone, circondata da candide ali di angeli – scugnizzi svolazzanti, che sembrano panni stesi ad asciugare.

È pomeriggio avanzato quando esco dal Pio istituto della misericordia: le luci si stanno accendendo, mentre mi dirigo verso uno dei luoghi dove sempre il lato- bambino che è dentro di me esce gioioso allo scoperto. Che strano trovarmi a san Gregorio Armeno nella settimana di Pasqua! Lungo tutta la via e sotto i portoni si accalcano fitte le botteghe sempre aperte dei fabbricanti di statuine che perpetuano l’artigianato napoletano del presepe con tante donne che cuciono ininterrottamente a mano gli abiti in stoffa, abbelliti con merletti e decorazioni, di cui le statuine saranno vestite. Qui è sempre Natale. E gli occhi di tutti, grandi e bambini, si spalancano alla meraviglia: figurine di terracotta, intere scene di vita popolare con i più incredibili personaggi e giochi d’acqua, muschio, sughero, cieli e stelle per comporre il fondale, palme, alberelli e frutti di tutti i tipi, per non parlare delle decine e decine di animali domestici e feroci in tutte le misure. E poi quello che rende unico il mercato di San Gregorio Armeno è la presenza delle statuine dei personaggi dell’attualità: Totò e Maradona, Sophia Loren e papa Francesco, il presidente Mattarella e il sindaco, e non possono mancare San Gennaro e l’intera squadra di calcio del Napoli capitanata dall’allenatore. Perché nel presepio c’è posto per tutto: storia, devozione, vita quotidiana, sport, cronaca, politica. Nessuno può essere escluso dalla Buona Novella. È arrivato molto presto a Napoli, il presepio: inizialmente solo la Sacra famiglia, poi i pastori tanto amati dalla gente, un sempre più fastoso corteo dei Magi, amato invece dalla famiglia reale, mentre intorno alla grotta prende vita un animato paesaggio di colline. Nel 1700 il presepe napoletano diventa opera d’arte: teatrale, realistico fino all’estremo, con personaggi tratti dalla strada, dal porto, della campagna. Una macchina spettacolare, dove l’armonia del tutto sovrasta le parti, ma ognuno “conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità (…) non si annulla, ma riceve sempre nuovi stimoli” (EG 235). Fruttivendole, mamme che allattano, donne che preparano la pasta, bambine che giocano, dame ingioiellate e signore di dubbia fama: le donne sono l’anima più colorata della folla coinvolta e tutto tende verso l’alto, la grotta che tutto sovrasta, dove turbina senza sosta un coro di angeli festosi. Le luci sono tutte accese ormai a San Gregorio Armeno, e non sai più distinguere se stai vivendo nella realtà o se sei anche tu parte del presepio. Mi allontano con due statuine: un po’ alla volta anch’io avrò il mio presepio napoletano! Mi sento un po’ come Luca, l’indimenticabile protagonista di Natale in casa Cupiello del grande Eduardo, che ad ogni Natale costruisce con amore il suo presepe, sperando ogni volta di ottenere uno svogliato cenno di approvazione dai sempre più indifferenti conoscenti e familiari. Nel finale della commedia, giunto al termine della vita, Luca sogna “un Presepe grande come il mondo, sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si danno un da fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello ed una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno riscaldando coi loro fiati un Gesù Bambino grande grande, che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo”. Perduto dietro quella visione, annuncia il prodigio a se stesso: “Che bel Presepe! Quanto è bello”. Sì, è proprio bello… come la magia tutta napoletana di perdersi tra l’incanto del Natale e la speranza della Pasqua.

Chiara Magaraggia

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