Togliete la pietra…Lazzaro, vieni fuori!

16
Apr

Il brano di Giovanni 11,1-44 conosciuto come il racconto della risurrezione di Lazzaro, si apre con un continuo rimando all’amore e alla malattia e queste due realtà sono poi il filo che collega tutti i versetti fino al ‘conseguente’ finale.

Giovanni sottolinea in modo molto chiaro che Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Sono le sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, a mandare l’annuncio a Gesù della malattia del fratello “Signore, ecco, colui che tu ami è malato” e questa iniziativa che non ha nessuna indicazione di una richiesta, ma semplicemente il riconoscimento di una realtà, seppur dolorosa, rimanda alla frase di Maria, la madre, al secondo capitolo del vangelo di Giovanni.

Come la comunicazione di Maria “Non hanno più vino” provoca alle Nozze di Cana il primo ‘segno’ di Gesù raccontato nel vangelo di Giovanni, così questa frase di Marta e Maria darà invece origine all’ultimo ‘segno’ raccontato prima dell’esperienza della passione, morte e risurrezione.

Quando Gesù riceve l’annuncio della malattia di Lazzaro, rimane ancora due giorni nel luogo in cui si trovava, ma il ‘terzo giorno’ si mette in cammino per andare a Betania.

Al suo arrivo, Lazzaro è già morto da quattro giorni. È Marta ad andare incontro a Gesù e a pronunciare per prima la frase che suona, nello stesso tempo, come un ‘rimprovero’ ma anche come una proclamazione di fede: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” Per la sua fede in Gesù, Marta con questa frase sembra riconoscere che dove Gesù è presente non può esserci morte; che la morte di Lazzaro è accaduta perché Gesù era ‘lontano’. Queste parole pronunciate da Marta, che verranno poi ripetute nello stesso modo anche da Maria, aprono il grande tema “dell’assenza” di Dio nel tempo e nello spazio. Come può Gesù permettere che un suo amico si ammali, soffra e muoia? Che ‘senso’ ha? Sono domande che ancora oggi risuonano nella nostra mente e nel nostro cuore quando nelle relazioni a noi care appaiono il dolore, la malattia e la morte. È la frase che segna il momento in cui la nostra fede e il nostro essere amati da Gesù, sembrano essere smentiti dalle sofferenze della vita, ma Gesù non è venuto per ‘prolungare’ la vita delle persone, è venuto per sconfiggere definitivamente la morte, per donare agli uomini e alle donne una vita di una ‘qualità’ tale che è capace di superare la morte.

L’incontro di Gesù con le due sorelle è raccontato da Giovanni con un’estrema vivezza, profondità e, nel contempo, ‘diversità’. Mentre Marta dialoga con Gesù nominando – lei, donna – il ‘sapere’ della fede e i contenuti dottrinali legati all’escatologia giudaica della risurrezione alla fine dei tempi, nell’incontro con Maria a parlare è tutto lo spazio corporeo, l’affetto manifestato nei gesti, la sofferenza espressa nel pianto. Sono due modi ambedue accolti e riconosciuti come possibilità di entrare in relazione con Gesù e anche di Gesù ad un certo punto si dice che “scoppiò in pianto”. L’evangelista, per il verbo piangere, usa in questi versetti due verbi diversi: mentre Maria e i Giudei piangono esprimendo una totale disperazione per qualcuno che è definitivamente perduto, Gesù “versa lacrime” mostrando il dolore e l’affetto per il discepolo amato.

Anche rispetto al luogo della sepoltura, Giovanni fornisce delle informazioni ben precise: il sepolcro era una grotta e contro di essa era posta una pietra (v. 38). Lazzaro era stato sepolto come prevedeva la tradizione giudaica, in una grotta, per riunirsi ai padri come raccontato nella Genesi per la sepoltura di Abramo, Isacco e Giacobbe. Per ben tre volte, dove il numero tre indica la completezza, la pienezza, viene ripetuto il termine ‘pietra’ ad indicare, e sottolineare, la fine di tutto.

A questo punto del testo, abbiamo il primo di tre imperativi che, se spingono all’azione i presenti, interpellano anche noi e i credenti di ogni tempo nell’aderire ed incarnare il messaggio di vita di Gesù. “Togliete la pietra”: Gesù non opera da solo, ma chiede alle persone che erano lì di compiere il gesto di togliere quella pietra che rappresentava la morte definitiva.

All’osservazione di Marta che il cadavere già mandava cattivo odore, Gesù risponde rimandando a lei la possibilità di vedere una vita capace di superare la morte: “Se credi, vedrai…”. Non il segno che conduce alla fede ma, al contrario, la fede che ‘produce’ il segno. A coloro che chiedono un segno per poter credere, Gesù chiede di credere per diventare loro stessi ‘segno’ che si può vedere.

Quando finalmente Gesù chiama fuori Lazzaro, il testo dice che esce un ‘morto’ legato mani e piedi con delle bende e con il volto coperto da un sudario (v. 43). Anche se per i giudei non era questa la maniera di seppellire i morti, molti salmi descrivono la morte proprio come una prigionia, come un legame che blocca la vita, così come il sudario è un riferimento al profeta Isaia che nel capitolo 25 afferma: “Egli, il Signore, strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia, cioè il sudario, di tutti i popoli, eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime di ogni volto”.  Ed è ancora una volta ai presenti che Gesù rivolge l’invito a collaborare con lui nel liberare e dare vita: “Scioglietelo e lasciatelo andare” perché la nuova vita non va stretta o trattenuta; i ‘legami’ vanno sciolti per poter camminare davvero verso la vita che non muore, per superare la soglia verso l’incontro con il Dio dei viventi.

Ciascuno di noi, di fronte alla morte, alle morti di ogni genere, è chiamato a rispondere e soprattutto ad attuare i tre  imperativi di Gesù: togliere la pietra, sciogliere e lasciare andare.

L’amore ‘vero’ e profondo che pervade tutto il brano porta al ‘conseguente’ finale che non è ‘semplicemente’ la risurrezione di Lazzaro, perché dare la vita a Lazzaro “costa” a Gesù la propria vita per quell’amore portato “fino alla fine”. È troppo pericoloso lasciare in vita chi insegna agli uomini e alle donne che chi vive e crede in lui, non morirà in eterno (vv. 25-26); chi esorta ad aprire le porte, a sollevare le pietre che soffocano le esistenze, per ridare vita.

“Da quel giorno, quindi, presero la decisione di ucciderlo” (v. 53).

Siamo discepole e discepoli di un ‘condannato a morte’ e come tali chiamati a stare dalla parte di chi è condannato e non di chi condanna. Chiamati a essere ‘segno’ che la morte non ha l’ultima parola, che anche se ci sono difficoltà, sofferenze, situazioni tristi in questa esistenza, c’è però una capacità nuova per vivere e superarle; chiamati ad annunciare che anche di fronte alla morte, l’ultima parola sarà della vita, per sempre.

Donatella Mottin

 

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