Rispondere va di moda

10
Ott

Il Progetto QUID risponde concretamente a svariati bisogni sociali producendo bellezza ed eccellenza

Rispondere alla fragilità umana e sociale con la moda di qualità si può. È l’esperienza del Progetto QUID. Può sembrare un binomio azzardato, ma il connubio sta funzionando così bene da avere dopo cinque anni di vita circa un centinaio di dipendenti. Mi sono imbattuta per caso in un “mi piace” lasciato su uno dei social dove sono presente da una persona di cui ho grande considerazione. “Progetto QUID” mi ha fatto pensare subito a qualcosa che toccasse l’ambito sociale, ma mai avrei pensato ad un progetto tanto interessante! Ho seguito la pagina con curiosità, ho visitato il sito internet e guardato un po’ di rassegna stampa. Il progetto mi ha convinta sulla teoria, ma sono voluta entrare in uno dei loro negozi perché volevo toccare con mano… e poi ho deciso di scrivere per avere un appuntamento telefonico. Mi risponde Giulia Houston, responsabile delle relazioni istituzionali di Progetto QUID. Ci accordiamo e subito il mondo di QUID ci permette di entrare in sintonia, in un crescendo di stupore e gratitudine nel cuore perché QUID è davvero quel “di più” che la moda di qualità permette quando va a braccetto con le fragilità.

Giulia, come nasce Progetto QUID? Cos’è?

Progetto QUID nasce come associazione di promozione sociale nel 2012 per volontà di cinque amici appassionati di moda e con un cuore per il sociale. Tra questi Anna Fiscale, ideatrice del progetto, che dopo essersi laureata in economia e commercio all’Università di Verona, ha poi proseguito gli studi ottenendo la doppia laurea in management delle relazioni internazionali all’Università Bocconi di Milano e un master in scienze politiche all’Università Sciences-Po di Parigi. Conclusi gli studi Anna decise di mettere a frutto quanto studiato con un progetto nel territorio veronese, dove lei stessa era nata e cresciuta. Anna pensava soprattutto alle donne vittime di violenza, così da permettere loro di reinserirsi socialmente con dignità, ma attualmente le fragilità sostenute sono molto diverse tra loro, riguardano soprattutto donne, ma non solo. A marzo 2013 all’associazione di promozione sociale Progetto QUID si è aggiunta quindi la cooperativa sociale Progetto QUID e al team di partenza si è affiancata una squadra di giovani creativi. Nell’estate e nell’autunno 2014 Progetto QUID ha inaugurato i primi due temporary store, uno a Forte dei Marmi, l’altro a Verona. Attualmente i punti vendita QUID sono cinque, tutti nel Nord Italia.

Pur essendo una cooperativa sociale, anche QUID ha una sua strategia d’impresa, compie alcune scelte etiche, ha un core business… e tutto viene gestito con grande competenza e innovazione, con personale qualificato e in formazione, con un’età media attorno ai trent’anni. Puoi spiegarci quali scelte strategiche state portando avanti in QUID e come queste diventano concretamente una risposta alle fragilità?

La visione che abbiamo in QUID è una visione sociale dell’impresa, sviluppando un’attività commerciale in uno dei settori delle eccellenze italiane, la moda. Abbiamo deciso di produrre un’eccellenza ma presentandola diversamente: la moda infatti ha la nomea di un ambiente di sfruttamento, noi invece abbiamo scelto di non sfruttare le persone, di non sprecare le risorse e di perseguire la maggiore eticità possibile. Inizialmente siamo partiti ricevendo donazioni di stoffe da grandi marchi che non potevano più usarle perché erano rimanenze delle collezioni passate o pezze troppo piccole per le loro produzioni. In poco tempo, però, le quantità degli ordini non ci hanno più permesso di continuare solo con le donazioni. Attualmente usiamo le eccedenze o le rimanenze di magazzino, cioè stoffe nuove, che ci vengono vendute a prezzo di stock o di favore, perché non sono più di moda. Inoltre, abbiamo iniziato a scegliere solo tessuti rispettosi dell’ambiente. Questo è stato un ulteriore passaggio nell’impegno etico che desideriamo realizzare.

E come siete riusciti a farvi conoscere così tanto in così poco tempo?

Abbiamo scelto il co-branding, cioè la vendita del nostro prodotto anche con l’etichetta di una grande marca come Calzedonia, ma soprattutto siamo presenti in punti vendita che vendono diverse marche, cioè hanno il multi-branding. Le collaborazioni sono andate via via solidificandosi, tanto che ora collaboriamo con otto grandi imprese italiane. E poi sentiamo molto importante la responsabilità sociale d’azienda: ciascuno di noi è socio della cooperativa e ciascuno è importante che porti il proprio contributo per la realizzazione del progetto comune.

Insomma, fate impresa etica, siete giovani… Quanti siete attualmente?

Ad oggi siamo 96 soci lavoratori dipendenti, di questi una quindicina sono addetti alle vendite, un’altra quindicina sono in ufficio e gli altri sono divisi nella produzione a macchina, nel disegno dei bozzetti, nella logistica e nel magazzino. Riusciamo ad assumere persone che non hanno particolari competenze perché non è un atelier sartoriale, ma un lavoro in catena che permette di sviluppare le competenze nel tempo. L’età media degli impiegati in ufficio è attorno ai 38/39 anni, mentre in produzione si va dai 19 ai 63 anni. Proveniamo da 16 nazioni, abbiamo storie e tradizioni molto diverse: alcune donne assunte provengono dal mondo del carcere, altre sono immigrate, altre hanno perso il lavoro, ma alcuni di noi non vengono da contesti di marginalità e hanno competenze specifiche necessarie nell’ottica di sviluppo della cooperativa.

Giulia, per te cosa significa lavorare in questo ambito?

Non avevo mai pensato ad un lavoro qui, ma mi sono appassionata a Progetto QUID e poi mi hanno presa! Per me il quid – il di più – di questo lavoro è la vicinanza e il lavorare accanto alle persone. Oggi siamo già riconosciuti come risposta ai bisogni dell’ambito sociale, tanto che non siamo più noi a cercare le persone, ma sono le istituzioni che ci cercano. Il clima tra di noi è davvero bello: ciascuno sa che ogni collega è importante per raggiungere l’obiettivo. Il segreto secondo me è proprio non pensarci troppo: se non ragionassimo troppo sull’integrazione, riusciremmo ad integrare naturalmente gli immigrati perché l’uomo è di per sé un essere relazionale.

sr. Naike Monique Borgo

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