III Domenica di Pasqua

25
Apr
(At 2,14.22-33   Sal 15   1Pt 1,17-21   Lc 24,13-35)

Commento di Simona Segoloni, teologa

Molte volte, mentre lo metto a letto, il mio figlio più piccolo mi chiede come facciamo a credere che uno è risorto dai morti. Mi fa mille intelligenti domande, cui io cerco di dare qualche risposta almeno accettabile. Proviamo ad ascoltare con l’animo trasparente dei bambini, ma anche con la loro intelligenza fresca, pronti a mettere in discussione per comprendere, l’annuncio che la chiesa ripete fino allo sfinimento in questi cinquanta giorni: “Questo Gesù Dio lo ha resuscitato” (anche la prima lettura di questa domenica ripete questo annuncio, quello risuonato per la prima volta sulla bocca di Pietro dopo che tutti i discepoli e le discepole che erano nel cenacolo erano usciti e avevano proclamato le grandi opere di Dio e i presenti li avevano sentiti parlare ognuno nella propria lingua).

Come è possibile credere una cosa del genere? Facciamo attenzione a quella fede troppo veloce, che somiglia all’affidamento cieco degli scaramantici: non posso capire ma ci credo perché mi fa sentire meglio. Se facciamo così – e a volte lo facciamo tutti, è umano e comprensibile – rischiamo di credere qualcosa che non ci cambia la vita, che non la tocca: allora può succedere che viviamo come se non avessimo alcuna speranza anche se diciamo di credere.

Nella seconda lettura Pietro cerca di farci rendere conto della portata dell’annuncio che abbiamo ricevuto: avevamo ereditato una condotta vuota incapace di darci la vita piena e siamo stati liberati dalla Pasqua di Cristo. La morte e la resurrezione di lui ci danno una speranza che ci rivolge a Dio e che ci fa camminare nella storia consapevoli che questa non è la nostra patria. Non è, infatti, la logica del mondo quella che dobbiamo assumere né la sua disperazione o il confidare nella violenza e nel potere, ma come stranieri attendiamo che il cammino ci conduca alla vita che ci è stata promessa e (come leggiamo nel salmo) sappiamo che il Signore ci porterà infallibilmente alla meta e che non ci abbandonerà: ciò che ci attende è il sentiero della vita, gioia piena alla presenza di lui, dolcezza senza fine.
Tutto questo è vero se è vero l’annuncio del Vangelo. Ma come facciamo a crederci? “Come facciamo, mamma, a sapere che non è una storia inventata da qualcuno per sentirsi meglio, perché la morte fa paura?”. Così il mio figlio più piccolo, ma lo hanno chiesto anche gli altri a loro tempo e ancora oggi hanno altre domande che chiedono – giustamente! – le ragioni di questa speranza.
Per trovare queste ragioni possiamo andare al Vangelo di domenica. I discepoli di Emmaus sono disillusi: avevano sperato che fosse Gesù a liberare Israele, ma i capi lo avevano fatto condannare a morte e lui era morto come tutti. Come se non bastasse delle donne – ma si sa: le donne sono facili a parlare e non sono affidabili (questa la mentalità del tempo, sperando che non sia più la nostra) – avevano parlato di resurrezione, ma come si fa a credere a questo? Questi discepoli sono stati con Gesù, lo hanno conosciuto, hanno ricevuto l’annuncio dalle testimoni che Gesù si è scelto, eppure non riescono a credere: dai morti non si risorge, lo sanno tutti. Gesù ascolta, di fianco a loro, i loro discorsi. Ascolta anche noi, le nostre farneticazioni, le nostre paure, le nostre incomprensioni. Tanto noi ci stanchiamo di ascoltare le chiacchiere e quelle che ci sembrano le stupidaggini degli altri, tanto lui è paziente. Ascolta. E poi, con grande schiettezza, ci dà degli stolti. Non crediamo all’annuncio del Vangelo, non ci sembra possibile (oppure ci crediamo con affidamento cieco senza farlo veramente nostro) perché non conosciamo le Scritture, non ci affidiamo cioè a ciò che Dio dice, al suo modo di leggere la storia e di spiegare le cose. E senza le Scritture siamo stolti, senza sapienza. Se ascoltassimo la Parola di Dio e guardassimo la vita alla luce di questa parola, ci accorgeremmo che la vita non muore, che Dio fa risorgere continuamente…e così l’annuncio della resurrezione di Gesù non ci sembrerebbe così incredibile.
Poi, però, se si prende il gusto di ascoltare questa parola, allora non si vorrebbe mai smettere: resta con noi. Dovrebbe essere la nostra richiesta struggente ogni volta che ascoltiamo la Parola, come diremmo ad un amico che amiamo e che sappiamo che non rivedremo per tanto tempo: resta ancora un po’.
Le Scritture ci istruiscono a cogliere la logica profonda di Dio, ci fanno comprendere i suoi pensieri, ci mostrano la nostra vita e tutta la realtà così come le vede lui, allora, quando queste ci hanno aperto le orecchie, siamo pronti anche per riconoscere il Signore vivo in mezzo a noi, per vederlo. I discepoli infatti, colmi della Parola ascoltata, si mettono a tavola con Gesù e lui spezza il pane: questo gesto, per i loro cuori nutriti dall’ascolto della Parola, diventa un’evidenza e lo riconoscono.
Quali sono, allora, i gesti in cui noi possiamo riconoscere il Risorto vivo in mezzo a noi? Quelli che lui ha scelto: spezzare il pane insieme per essere fratelli e sorelle, lavarci i piedi gli uni gli altri. Ogni volta che vediamo questo, istruiti dalla Scrittura, i nostri occhi si aprono e noi riconosciamo il Signore presente e vivo. Ogni volta sapremo che lui è vivo e che l’annuncio della resurrezione è vero. La nostra stessa vita, liberata dalla morte e diventata luogo in cui spezzare il pane e lavare i piedi, ne è la prova. Io guardo il mio bambino (e i miei figli tutti) ogni sera e so che il Signore è vivo per l’amore che mi è dato di vivere, per il pane condiviso, per i piedi lavati, e per una parola che dà senso a tutto e che, scritta duemila anni fa, racconta per filo e per segno le mie giornate. Questo è vero per ogni credente.
Allora, come i due pellegrini di Emmaus, andiamo entusiasti dal resto della chiesa e ci sentiamo fare di nuovo l’annuncio: davvero il Signore è risorto! Ma questa volta crederemo, perché lo sappiamo già. Lo abbiamo incontrato, lo abbiamo ascoltato e lo abbiamo riconosciuto mentre spezzava il pane.
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