Farsi carne

25
Mar

La meraviglia potentissima di un Dio che sceglie di assumere la nostra condizione: fragile, debole ma benedetta dal suo amore

Durante il viaggio nel deserto verso la conquista della libertà e di una terra in cui vivere, raccontato nel libro dell’Esodo, gli ebrei, nel tentativo di costituirsi come popolo con tutto ciò che in difficoltà e fallimenti questo ha comportato, potevano contare sulla presenza del Signore rappresentata dalla tenda, dimora di Dio, che guidava i loro passi e con loro affrontava il cammino.

Poi il popolo, conquistata la terra e stabilitosi in essa, decise di sostituire la tenda con una casa per Dio e costruì un tempio: unico luogo in cui fare sacrifici a Dio, un luogo fermo, chiuso, dove non a tutti veniva consentito l’accesso, dove rigidi cerimoniali e mediazioni di figure incaricate resero Dio sempre più lontano dalla vita quotidiana degli uomini e delle donne. Il tempio divenne addirittura motivo di separazione tra gli stessi credenti ebrei, tra chi riconosceva nel tempio di Gerusalemme l’unico luogo di culto e chi se ne costruì un altro, i samaritani, sul monte Garizim.

Questo fino a Gesù, soprattutto al Gesù come ci viene raccontato nel Vangelo di Giovanni, che travolge tutto: non più “in principio Dio creò il cielo e la terra…” ma “in principio c’era la Parola…”, c’era un progetto di Dio che si realizza nel farsi carne di Gesù e nel mettere nuovamente “la sua tenda in mezzo a noi”.

Non abbiamo ancora compreso del tutto questa straordinaria affermazione, forse ci fa anche un po’ paura, preferiamo lasciarla scivolare via dalle nostre vite rispolverandola tuttalpiù a Natale, abbinandola alla tenerezza di un dolce e innocuo bambino.

L’incarnazione è farsi umanità e questa umanizzazione spesso ci scandalizza e tentiamo di accantonarla: eppure è la verità cristiana, rifiutata con forza dagli altri monoteismi, tanto l’islam come l’ebraismo. Giovanni non dice che la Parola si è fatta uomo, ma usa il termine carne, che indica tutta la fragilità e la debolezza dell’umanità legata alla condizione terrena.

Assumendo la vicenda storica di un ebreo nella Galilea del I secolo d.C., vivendone le realtà e le difficoltà sociali, Gesù ha predicato il Regno in un contesto storico ben preciso, vicino a coloro che erano sofferenti e cercando chi era considerato perduto. Ha assunto un limite, una parzialità, come ogni nostra vita è limitata e parziale.

“Così facendo espresse ciò che Dio è ed è sempre: amore traboccante… Questo amore vissuto alla radice del nostro essere, altro non è che il dono del sé di Dio. È offerto liberamente a tutti senza eccezione come luce e promessa di vita, e si fa visibile nella storia laddove vi sia amore per il prossimo, fedeltà alla propria coscienza, coraggio nel resistere al male e qualsiasi altra attestazione umana rispetto a ciò che è «di più»” (E. Johnson).

Il Dio incarnato ha posto la sua tenda in noi, come potrebbe essere tradotto il termine greco usato. Dio ha ripreso il posto del suo progetto iniziale, non è più da cercare, ma da accogliere, qualunque sia il genere, la situazione, il luogo della terra in cui vive ogni essere umano.

Il luogo/spazio in cui Dio manifesta la sua gloria è la debolezza di ogni condizione umana.

“Dio nessuno lo ha mai visto… il Figlio unigenito è lui che ce l’ha rivelato”. E che cos’è l’incarnazione se non sapere che Gesù ha avuto fame come ciascuno di noi, ha avuto sete; ha avuto amiche e amici con cui parlare e confrontarsi; ha ascoltato, cambiato idea, trovato in straniere e pagani una fede più grande che non nel suo popolo; ha mangiato e fatto festa con farisei e peccatori, ha pianto per un amico morto, ha chiesto sostegno nel momento della prova; ha fallito e ha fatto di questo fallimento la sua gloria. L’incarnazione è la cancellazione di ogni separazione tra sacro e profano. La vita è sacra, ogni vita, ogni umanità, anche la più disprezzata e lacerata. Solo trovando la nostra umanità e nel rapporto con l’umanità di ciascuno, possiamo accogliere Dio.

Con il teologo Rahner, possiamo pregare: “Tu devi rendere (…) finita la tua infinita parola, che possa entrare nella mia piccolezza, che le si adatti senza distruggere la piccola dimora in cui solo può vivere il mio essere finito. (…) Nella tua parola rimpicciolita, che non dice tutto ma che io posso intendere, io ritroverò ancora il respiro. Una parola umana devi assumere a tua parola e questa devi dire, alla tua creatura. Non dire tutto quello che sei nella tua infinità: dimmi solo che mi ami, dimmi solo che sei buono con me”.

E noi potremmo aggiungere: dimmi solo che sei carne come me, perché io possa desiderare ardentemente di diventare come te, figlia/figlio di Dio.

Donatella Mottin

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