Evangelo e intercultura

01
Feb

Non se la prenderanno a male, le lettrici e i lettori di Vita nuova, se – ancora una volta – lascio che il tema di fondo di questo numero operi come parola suggestiva, che mi invita a condividere, senza una pretesta di completezza, una serie di considerazioni sul tema dell’intercultura. È quasi superfluo sottolineare quanto il tema dell’incontro tra culture diverse sia uno dei punti caldi del dibattito all’interno della nostra società: slogan sbraitati dalla politica – che, nella maggior parte dei casi, non aiutano a trattare adeguatamente il tema –, paure delle persone che scaricano sul diverso la colpa di tutti i mali, difficoltà ad immaginarsi “contaminati” da prospettive di vita differenti dalle nostre. Sono soltanto alcuni degli aspetti più evidenti che si manifestano intorno allo snodo dell’intercultura. E tale dibattito non riguarda solamente la società civile, ma anche e proprio le chiese. Non solo perché le chiese fanno parte di questa società, ma perché vivono, talvolta come osservatorio privilegiato, esperienze dirette di confronto tra culture differenti.

Non è particolarmente originale ricordare che, fin dalle sue origini, la chiesa cristiana ha sperimentato quello che oggi sarebbe definito un confronto (o, addirittura, un conflitto) interculturale. La chiesa non sarebbe diventata ciò che è se non vi fosse stato, come mostra con chiarezza l’epistolario paolino, un incontro tra prospettive culturali (tra parti) molto differenti (e anche tra loro confliggenti), rappresentate dal giudaismo e dal paganesimo. La chiesa cristiana delle origini prende forma anche intorno alla polemica generata da un diverso modo di avvicinarsi a Cristo, legato alla cultura di provenienza. Il fatto che il cristianesimo si sia poi sviluppato in particolare nel contesto europeo, con una fondamentale uniformità di prospettive culturali, ha determinato un sostanziale oblio di tale dimensione. Soltanto in tempi relativamente recenti la percezione di una dissonanza all’interno del cristianesimo, che coinvolge non soltanto la prospettiva teologica (cosa già evidente nel confronto tra le diverse confessioni cristiane), ma anche e proprio la prospettiva culturale dei cristiani, è venuta prepotentemente alla ribalta. In ambito evangelico, nella seconda metà del ‘900, uno dei teologi che ha maggiormente insistito nella propria riflessione su tale dimensione è Jürgen Moltmann. Moltmann sottolinea il carattere contestuale di ogni riflessione teologica, mettendo pertanto in luce che ogni elaborazione teologica è anche determinata dal contesto nel quale si sviluppa: si tratti del contesto accademico europeo, del contesto del pensiero femminile, del contesto culturale asiatico o africano. Insomma, fingere che tali aspetti siano solamente accenti secondari, significa non comprendere appieno lo sviluppo di quello specifico pensiero teologico.

Nel quadro del vissuto delle chiese (anche e proprio in Italia) non sempre questo tipo di riflessione è assodata. Anzi, considerando l’esperienza concreta di molte comunità cristiane, verrebbe da pensare che il percorso da fare su questo terreno sia ancora molto lungo. Non pretendo ovviamente di offrire uno schema completo di riflessione, ma mi permetto di abbozzare alcune suggestioni. In primo luogo, proprio nello spazio ecclesiale, si dovrebbe percepire che all’interno delle comunità di fede (cattoliche, protestanti, ortodosse) ad incontrarsi non sono solamente cristiani di confessioni differenti, ma anche cristiani con culture differenti. Detta così, la cosa può apparire banale. Proviamo però a porci una domanda: quanto conosciamo del cristianesimo di altri angoli del mondo? Come vivono il lutto e la gioia, la festa per un battesimo o la preparazione ad un funerale i cristiani di altre parti del globo? In che misura questi modi di rapportarsi ad ambiti della fede sono legati alla cultura o ricevono la loro forma dallo stesso credo cristiano? Molto spesso la difficoltà maggiore, per la maggioranza che accoglie (o dovrebbe farlo!), è riconoscere che non ci si confronta con un qualche tipo di folklore esotico, ma con persone che, confessando la comune fede in Gesù Cristo, utilizzano codici differenti. Tali codici sono relativi all’espressione liturgica, alla pietà personale, alla visione del mondo. E tali diversità hanno a che vedere con la cultura di provenienza, che non rappresenta un terreno neutro, ma il contesto concreto nel quale l’evangelo di Gesù Cristo è stato annunciato. Mi pare, per dirlo scopertamente, che ancora troppe comunità cristiane considerino l’incontro con “altri cristianesimi” come un’esperienza positiva se presa a piccole dosi, negativa se assume carattere continuativo. Eppure, chiediamoci: nel mondo globale, è davvero possibile pensarla così? In un certo senso (e mi pare che sia questo anche il suggerimento che si può trovare in EG 235) non è possibile cogliere il carattere unificante di un tutto, di un “bene supremo” senza cogliere il carattere peculiare e portatore di verità delle sue variegate e differenziate espressioni. Certo, il riconoscimento di tali peculiarità, e questo dovrebbe essere il secondo passo, non significa annullamento di una propria identità particolare, quanto piuttosto valorizzazione di un tassello che permette di meglio cogliere quel tutto, che la mia identità particolare non mi offre.

Il tutto è superiore alla parte. Nel quadro di una riflessione che si confronti con le diverse eredità culturali nelle quali il cristianesimo ha messo radici, tale principio invita alla prudenza di fronte alle troppo facili accuse di sincretismo in alcune prassi cristiane e, al tempo stesso, alla cautela dinnanzi ad entusiastici accoglimenti di prassi che sembrano esprimere il cuore più vero della fede. L’unico vero cuore della fede è e rimane l’evangelo del Regno, che si propone come parola totalizzante (tutto) capace di creare unità tra attitudini culturali molto diverse (parti). E qui vale la pena, almeno per una volta, che sia anche un pastore protestante a citare un documento papale: “Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno. Il tutto è superiore alla parte”.

William Jourdan, pastore valdese

 

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