Aprire le porte della gabbia!

12
Giu

Uomini e donne audaci, capaci di sognare insieme nella com/passione e contro ogni paura

Le cose che stanno a cuore affiorano continuamente alla lingua e alla penna: esperienza comune, che si può facilmente verificare anche negli scritti di Francesco.

I dieci paragrafi di Gaudete et exsultate che ora guidano questo percorso (nn. 129-139) non fanno eccezione, così che possiamo iniziare a commentarli con un passaggio dell’Esortazione postsinodale ai giovani e a tutto il popolo di Dio: “Non siate auto parcheggiate, lasciate piuttosto sbocciare i sogni e prendete decisioni. Rischiate, anche se sbaglierete. Non sopravvivete con l’anima anestetizzata e non guardate il mondo come se foste turisti. Fatevi sentire! Scacciate le paure che vi paralizzano, per non diventare giovani mummificati. Vivete! Datevi al meglio della vita! Aprite le porte della gabbia e volate via! Per favore, non andate in pensione prima del tempo” (Christus vivit n. 143).

L’ispirazione è infatti straordinariamente simile, attraversata dal sogno e dall’audacia e caratterizzata dal superamento delle piccole paure, che messe insieme costituiscono la Grande Paura, che è tentazione per eccellenza, grigiore e paralisi. Nello stesso tempo questa manciata di pagine, con il cospicuo rimando all’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, svela anche uno dei cuori pulsanti di questo pontificato, che legandosi strettamente alla recezione conciliare impostata da Montini, pone in Evangelii gaudium il programma di una riforma della chiesa in profondità, in uscita, in compagnia degli uomini e delle donne.

Anche in questi passaggi molto seri, in ogni caso, Francesco non rinuncia al cambio di registro di una battuta, un po’ spiritosa e un po’ amara: “A volte mi domando se, a causa dell’aria irrespirabile della nostra autoreferenzialità, Gesù non starà bussando dentro di noi perché lo lasciamo uscire” (GE 136). Al fondo, comunque – e anche qua traspare – una profonda ispirazione evangelica: l’audacia è una traduzione della com/passione di Cristo.

 

L’audacia della Cananea

come ispirazione

Il cuore della sezione è infatti estremamente serio: uscire dalla paura e dall’abitudine è possibile perché il movimento del Dio di Gesù è di uscita verso ognuno di noi, di com/passione, che indica simultaneamente la sua passione per noi, la sua solidarietà con ognuno, la sua vita condivisa e irradiata nella risurrezione.

Provando a rendere in termini più quotidiani questo nucleo incandescente, possiamo lasciarci guidare dalla Cananea/Sirofenicia dei Vangeli: il coraggio di questa donna, che irrompe in un luogo non autorizzato e interrompe qualcosa che non la prevede, non nasce da un imperativo morale di audacia, da un codice d’onore o qualcosa del genere. Al contrario, nasce da un’esigenza vitale, da una relazione ferita che non può attendere: la mia bambina sta male, guariscila, quale che siano la tua missione, le tue idee, le tue regole, se puoi, guarisci la mia bambina! Eppure Gesù poi loda la sua fede: la com/passione nasce da un’esperienza e da una relazione e solo da lì può venire una audacia che le corrisponda, che è una forza di vita travolgente, quella stessa vita che Gesù condivide con noi e che lo Spirito dona. Uomini e donne nelle barche in balia delle onde, periferie calpestate, vite rifiutate: non si tratta di idee, ma di relazioni che non possono essere tacitate. Nel testo leggiamo: “Dio non ha paura! Non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie. Egli stesso si è fatto periferia (cf. Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì” (GE 135).

 

Il clericalismo e l’altraprudenza

Certamente è una cosa molto semplice, ma per niente banale: destinata a trovare resistenza nella nostra comune tendenza a evitare gli ostacoli, ma anche in quelle forme semi/organizzate, spesso riprese qui e in EG, che vedono una comunità civile, ma anche un corpo ecclesiale, stare dalla parte del più forte, di chi grida di più o lascia solo intendere che può comandare.

Il richiamo ai martiri – anche quelli caduti per la propria opposizione ai totalitarismi – è purtroppo sempre molto attuale, ma sembra che non sia per niente scontato apprenderne la lezione, nella società e nella chiesa. È di appena ieri, infatti, un caso come quello che ha coinvolto padre Dupuis: non si può non leggere il libro di Gerard O’Connel, Il mio caso non è chiuso (EMI 2019) e soprattutto non si può non provare un brivido sinistro riconoscendovi metodi che tentano ancora di “spiare la nostra libertà in Cristo” (Gal 2,3). Se e quando accade, usciamo dalle gabbie: il re è nudo, questi metodi non devono avere spazio, basta un po’ di audacia, neanche tanta e certe mura possono cadere!

Questa parresía è un volto della prudenza evangelica, mentre il suo contrario è uno degli aspetti del clericalismo, che tenta di ammantarsi di virtù! Non nuovo neanche questo, ma ben rappresentato di don Abbondio, che non solo “stava col più forte, sempre però alla retroguardia”, ma si sentiva in dovere di disapprovare chi prendeva le difese di altri: “Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavano come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddrizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi erano conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente” (Alessandro Manzoni, I promessi sposi).

Sogni e visioni

Ognuno può e saprà riempire i molti spazi bianchi con la propria esperienza, in quello che può avere di luminoso e anche di polveroso. Lasciamo ancora la parola all’ultima Esortazione, vicina in modo impressionante a tante nostre riflessioni: “Gli anziani sognano e i giovani hanno visioni. In che modo le due cose si completano a vicenda? Gli anziani hanno sogni intessuti di ricordi, delle immagini di tante cose vissute, segnati dall’esperienza e dagli anni. Se i giovani si radicano nei sogni degli anziani riescono a vedere il futuro, possono avere visioni che aprono loro l’orizzonte e mostrano loro nuovi cammini. Ma se gli anziani non sognano, i giovani non possono più vedere chiaramente l’orizzonte (CV nn. 192-193). Faremo dunque del nostro meglio!

Cristina Simonelli

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