Il secondo giubileo della storia
Movesi il vecchierel canuto e bianco
del dolce loco ove ha sua età vissuta
e dalla sua famigliola sbigottita
che vede il caro padre venir manco…
e viene a Roma seguendo il desìo
per mirar la sembianza di Colui
che ancor lassù nel vedere spera.
Sono versi toccanti, questi, tratti da un sonetto che Francesco Petrarca ha inserito nel suo Canzoniere: ci sembra di assistere a questa scena in cui un uomo ormai vecchio (quanta dolcezza nel chiamarlo “vecchierello”) lascia la sua piccola famiglia di cui conosciamo i figli sbigottiti, presaghi che non vedranno più il loro caro padre. Ma il richiamo di Roma, il desiderio di poter finalmente vedere l’immagine del volto di Cristo prima di poterlo contemplare “lassù” è più forte di ogni indugio. L’uomo medievale è cosciente di essere pellegrino su questa terra e, mettendosi in cammino, lo fa con la speranza, anzi la certezza, che il perdono giubilare gli spalancherà la via luminosa della meta celeste; e la fede è talmente determinata che molti prima di partire redigono il testamento. È un giubileo singolare quello di cui parla Petrarca nel 1350 – il secondo della storia: viene indetto da Clemente VI in uno dei momenti più oscuri della storia della Chiesa: l’abbandono di Roma, sede apostolica, per trasferirsi ad Avignone, sotto il controllo del re di Francia. E Petrarca, assieme a Caterina da Siena, sarà in prima fila a supplicare il pontefice di tornare nella sua sede. Un anno santo con il papa lontano, con una Roma ben diversa da quella affollata ed entusiasta descritta da Dante: è una città abbandonata, insicura, preda delle rivalità delle grandi famiglie e di insurrezioni popolari. Per il poeta è il ritorno nella Città Eterna: ci descrive il viaggio con il suo stile piano e discorsivo in una lettera all’amico Giovanni Boccaccio, presso cui era stato ospite durante il cammino: “Dopo averti salutato, come sai proseguivo verso Roma, in quest’anno che noi peccatori abbiamo tanto desiderato e che richiama tutta la cristianità. Sono già quattordici anni da quando venni nell’Urbe, per la prima volta soltanto per il desiderio di vederne le meraviglie, una seconda volta per l’ambizione di ottenere l’alloro poetico, poi perché non ebbi timore nel cercare di sostenere amici illustri. Questo è il mio quinto, forse l’ultimo, ben più felice degli altri perché è motivo di gioia e speranza occuparsi dell’anima piuttosto del corpo, della salvezza eterna piuttosto che della gloria terrena”. Non sarà facile per Petrarca giungere a Roma: una caduta da cavallo gli procura forti dolori e lo costringe a una lunga sosta forzata, ma “caro amico, ti scrivo coricato e dolorante, non per addolorarti ma perché tu sia contento di sapere che ho sopportato tutto di buon grado, con la speranza che Dio, ora che è il mio corpo a zoppicare, mi rafforzerà la volontà di sollevare il mio animo tanto più zoppicante”. Anche
per lui un giubileo di speranza.
Chiara Magaraggia