Una condivisione contagiosa

02
Ago

“Adesso anche le suore vanno in bicicletta”: sento questo commento nel  piazzale della parrocchia mentre mi sto recando alla messa domenicale. Mi giro e vedo due suore che, in bicicletta, si dirigono verso la canonica, in cui entrano, scomparendo al mio sguardo divertito e a quello preoccupato della mia interlocutrice. Poiché non mi piacciono gli schemi in cui confiniamo le persone a causa degli stereotipi che condizionano la nostra libertà di pensiero decido di proseguire questo dialogo. “La bicicletta è solo un mezzo di trasporto” rispondo alla signora “comodo e veloce. La uso anche io per andare a scuola fino a San Marco (un paese a circa 4 km da Caserta). Non è niente di rivoluzionario, magari queste suore sono più brave di quelle che camminano a testa bassa!” Questo il mio primo “contatto visivo” con le Suore Orsoline, arrivate a Caserta da Vicenza nel 1995. Rincontrai le due suore in un corso di aggiornamento per insegnanti sul tema dell’etica di cittadinanza, organizzato dal comitato Caserta città di Pace, del quale, nel frattempo erano entrate a far parte. Ovviamente erano presenti come docenti e portarono la testimonianza dell’esperienza che stavano vivendo nell’accoglienza a donne immigrate in difficoltà. Mi sentii subito molto attratta dalla loro testimonianza, soprattutto per la semplicità con cui parlavano di tematiche relative al sesso e alla prostituzione, veri tabù nel mondo religioso, soprattutto quello femminile. Dopo qualche settimana varcai la porta della loro casa portando un piccolo contributo raccolto nell’Associazione Volontari Ospedalieri di cui allora ero Presidente e da allora non ci siamo più lasciate, anche se il legame si è andato intensificando e modificando nel tempo man mano che i nostri percorsi di crescita si sono strettamente intrecciati. Da insegnante ero rimasta molto colpita dal modo in cui costruivano il loro progetto: niente di già preconfezionato o importato da altre realtà, ma qualcosa che si costruiva dall’analisi attenta dell’ambiente circostante. I primi mesi a Caserta, infatti, erano stati impiegati nell’esplorazione del territorio, nella costruzione di una rete di relazioni, nella conoscenza di Enti, Istituzioni, Parrocchie e gente comune, per cogliere bisogni e risorse di una comunità variegata come quella della nostra provincia. L’esperienza di servizio nel carcere femminile situato nel centro storico di Caserta, aveva messo in luce che metà delle donne carcerate erano straniere, coinvolte nel mondo della prostituzione. Per conoscere da vicino questa realtà, ma soprattutto per incontrare e parlare con le giovani vittime di questo losco traffico, le suore decisero di recarsi sulle strade del litorale Domiziano per portare loro, nel giorno dell’otto marzo, un segno di amicizia e per imparare direttamente dalla “strada” la lezione che nessun Ente, Istituzione o libro avrebbe potuto insegnare. Questa esperienza, evento-simbolo della Comunità, segnò la grande svolta e fece prendere corpo al “sogno” con il quale erano arrivate al sud: la nascita di Casa Rut, il luogo in cui prendersi cura delle donne in difficoltà, soprattutto immigrate, che vivevano nella nostra terra una condizione di invisibilità e di precarietà sociale e umana. La frequentazione di questa “casa” mi ha posto davanti una realtà speciale, una modalità di presa in carico della vita di donne da parte di altre donne che hanno a cuore il loro destino, che si occupano di loro e dei loro bambini anche dopo la fine del percorso di accoglienza previsto per legge. Casa Rut è un luogo in cui si respira un’aria di “famiglia”, in cui c’è tra le suore e le giovani donne un rapporto come quello di una madre con la propria figlia. Una nuova modalità di relazione che valorizza la componente affettiva su quella esclusivamente educativa, escludendo però qualsiasi forma di pietismo nei confronti della persona più debole. È venuto naturale, nel tempo, che quest’aria di famiglia si allargasse anche a me e mi sono sentita molto vicina agli eventi di ciascuna delle ragazze e dei loro bambini, tanto da diventare la madrina di uno di essi. Per un periodo, ogni domenica pomeriggio andavo a casa Rut a proiettare un film, armata di computer e videoproiettore, ed era ogni volta una festa: sul tavolo trovavo i pop-corn, come in ogni buon cinema che si rispetti, le sedie già ben sistemate, le mamme che avevano già provveduto a far mangiare i piccoli per non interrompere la visione e, soprattutto, quella sana curiosità di imparare a far funzionare il computer, a collegare i fili, proprio come fanno i figli quando vogliono imparare dai loro genitori. E poi quel senso di riconoscenza che vedevo scritto nei loro occhi per il tempo e lo svago che donavo loro con la consapevolezza, da parte mia, che io stavo ricevendo molto di più! Inutile dire che al film erano presenti tutte, anche le suore, che valorizzavano così l’iniziativa rendendola non qualcosa fatta “per loro” ma “con loro”.

Spesso si pensa che per fare grandi cose bisogna avere tanti mezzi e contare su un gran numero di persone: l’esperienza di casa Rut mi ha fatto toccare con mano che le cose non stanno così. Ci sono minoranze che con la loro forza spirituale e la loro creatività sono capaci di incidere fortemente nelle dinamiche sociali, in modo talmente nuovo e profondo  da acquisire il potere di “segno” per altre. La comunità Rut di Caserta per me è questo, è “segno”: una piccola realtà di solo quattro suore che è riuscita a diventare in questa città avamposto di democrazia e baluardo della difesa dei diritti delle persone più emarginate. Infatti, la vita di questo gruppo di religiose non si esaurisce nella pur frenetica attività di una casa sempre piena di donne e tanti bambini, ma vive di una continua interazione con il territorio, in un dialogo continuo con le istituzioni, alle quali non fa mancare critiche e proposte quando le norme calpestano i diritti della persona. In un territorio come il nostro, questo corretto rapporto istituzionale ha un elevato valore pedagogico per i cittadini, che spesso istaurano con il potere un rapporto di sudditanza o di tipo clientelare, perdendo la consapevolezza di essere portatori di diritti. La tragicità dei drammi che riguardano le donne e gli uomini migranti possono veramente  massacrare la speranza di poter cambiare lo stato delle cose: per coloro che li vivono, perché si fa sempre più forte la paura di non poterne venire fuori, e per noi, assediati dalla cronaca, perché corriamo il rischio di essere anestetizzati al punto tale da non riuscire a provare più dolore e indignazione per tanta violenza. L’esempio di questa comunità è stato di enorme importanza per l’acquisizione di una coscienza civica e ha spinto tutti noi, collaboratori di casa Rut, a non rimanere in silenzio di fronte alle ingiustizie.

Come con  la crescita dei figli ci si comincia a preoccupare del loro futuro così, dopo alcuni anni, anche la comunità casa Rut ha cominciato a coltivare il “sogno” di creare un’opportunità di lavoro che potesse aiutare le donne a riconquistare la loro dignità calpestata. Nel 2004, le suore insieme alle amiche laiche hanno dato vita, attraverso una forma di autorganizzazione dal basso, ad una Cooperativa sociale, un laboratorio di sartoria etnica gestito da alcune ragazze già in accoglienza a Casa Rut. Questa piccola realtà è stata chiamata “neWhope”, nuova speranza. Una speranza che ha aiutato ad uscire da situazioni estreme di violenza e sfruttamento, da situazioni di invisibilità tante donne immigrate. Oggi io sono la vice presidente della neWhope, ho aiutato questa giovane figlia della comunità Rut a staccarsi da sua “madre” e diventare una realtà produttiva autonoma. Io credo che questa piccola realtà sia davvero un luogo simbolo che ha in sé il potere del “segno”, testimonia cioè che esiste una forma di economia solidale, diversa dall’economia di mercato che vede nel profitto il suo unico fine, che è portatrice nella società di beni di legalità e giustizia. Inoltre ha anche una elevata funzione di coesione sociale in quanto, in un clima di grave crisi dei valori e dei costumi che ha portato al disconoscimento dell’altro come proprio simile, ha reso concreto l’ideale di solidarietà sociale attraverso un impegno per la promozione umana e l’integrazione, attraverso la costruzione di relazioni di reciproca accoglienza.

Tutto ciò è stato reso possibile dalla maestria e dall’abnegazione della comunità Rut che ha saputo tessere intorno al progetto della cooperativa una rete di collaboratori volontari, in grado sia di fornire un aiuto per lo sviluppo delle attività produttive che di costituire il substrato per i percorsi di integrazione, veicolando nella società quei beni relazionali che aumentano la coesione sociale. In questa piccola realtà, in 7 anni di esistenza, sono transitate tante giovani donne, vittime di tratta, che hanno avuto l’opportunità di una formazione professionale ma anche una educazione alla responsabilità e all’etica del lavoro; che hanno potuto riconquistare il loro diritto alla partecipazione alla vita sociale del territorio attraverso un lavoro legale, con una giusta retribuzione.

Per questo mi piace pensare  alla neWhope come  il luogo in cui altre vie sono possibili.

Un luogo in cui il valore dei rapporti umani precede e travalica ogni differenza di colore della pelle, di religione, di cultura.

Un luogo che crea opportunità di lavoro nella legalità, in un territorio dominato dal lavoro nero.

Un luogo dove, attraverso l’impegno politico-culturale di contrasto ai fenomeni criminosi di tratta e immigrazione clandestina, si educa il territorio all’integrazione delle donne immigrate e, attraverso le campagne d’impegno civile in difesa dei beni comuni, come l’ambiente e l’acqua pubblica, si riconosce loro il diritto a partecipare attivamente alla vita sociale del territorio.

È il luogo in cui i colori, così vivi e intensi, così diversi eppure ben assortiti tra loro, creano un senso di armonia mostrando tutta la sapienza, la maestria, la fantasia, la creatività custodite nell’animo umano, anche di quelle persone che la nostra società considera incapaci di apporti originali e utili al bene della collettività.

Casa Rut è stata una madre accorta e capace di costruire il proprio “progetto” a partire dai reali bisogni del territorio, un progetto a spirale, che allarga sempre i suoi orizzonti e apre nuove strade per restituire alle donne la dignità di una vita piena.

 Un “prendersi cura” che ha contaminato tante persone amiche di Casa Rut che instaurano legami di amicizia con le donne immigrate, che partecipano agli eventi piacevoli della loro vita, nascite, battesimi, matrimoni, che arrivano anche all’affido temporaneo dei bambini per permettere alle mamme di lavorare e che collaborano attivamente alla realizzazione di questo “sogno” di dignità.

Ecco come percepisco la presenza della comunità casa Rut: uno spazio di opportunità, dove persone con l’animo ferito ricompongono la loro dignità e riescono a far emergere i loro talenti!

Ho sempre creduto che nella vita fosse indispensabile avere dei sogni ma dal mio incontro con casa Rut ho capito che occorre soprattutto  avere il coraggio e la forza di realizzarli.

                                                                                          Titti Malorni (amica di casa Rut)

  

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