Le orsoline… al tempo del coronavirus

10
Ott

Una raccolta di testimonianze su come abbiamo vissuto questi mesi di pandemia

La fede al tempo del coronavirus… L’amore al tempo del coronavirus… Il turismo al tempo del coronavirus… La scuola, la sanità, il divertimento, la natura al tempo del… L’elenco potrebbe dilatarsi all’infinito: quanti titoli simili abbiamo visto su giornali, televisione e social vari? Ma che cosa circoscrive il tempo del coronavirus e come sarà definito l’arco di storia che stiamo vivendo? Sappiamo, e neanche di preciso, quando è iniziato, leggiamo a fatica il tempo che stiamo vivendo, abbiamo infinite probabilità di ritorno della malattia, di vaccini che la sconfiggono, si prospetta il nascere di altri virus…

Tutti improvvisamente siamo stati catapultati dentro un “problema”, perché – incredibile a dirsi – malati e sani, contagiati o meno, tutti siamo stati investiti dalla malattia o dalle sue conseguenze. E poi bastava (o basta?) accendere la televisione, aprire un giornale: tema monografico su tutta la linea, non si parlava d’altro, compresa la pubblicità, adattata al tema. Il mondo unificato da un virus invisibile che ha spazzato le differenze, ha ignorato i confini e dimenticato le classi sociali, neanche rispettando l’entità dei conti in banca, salvo di consentire ad alcuni di curarsi e ad altri neanche a poter riconoscere la malattia.

Ed oggi come stiamo? Riprendiamo debolmente a parlare di guerre e violenze, di drammi internazionali, della salvaguardia del creato, di immigrazioni via mare o via terra… sicuramente non ci siamo illusi di averli risolti, perché stanno riesplodendo non con la forza di prima, ma esasperati e ingranditi.

Ma noi davanti a questi come reagiamo? Siamo cresciuti, abbiamo imparato, abbiamo maturato una consapevolezza diversa, che pone nuove riflessioni proprio grazie a questo tempo? La tentazione o illusione di aspettare il momento fatidico in cui si può dire che tutto è tornato come prima può abitare alcuni, mentre altri guardano al covid-19 come al virus che infetta i computer e lascia lo schermo nero: oggi facciamo fatica a prevedere; sono neri gli schermi delle nostre organizzazioni, della progettualità, del futuro?

Sono paure che ci abitano, inevitabili, ma accanto a queste possiamo dire che la pandemia ha dato un solenne strattone a quanto copriva le problematiche della terra e dell’umanità, lasciando scoperte possibilità inedite, filoni nuovi da percorrere. È proprio vero che peggio del coronavirus c’è solo il rischio che non ci abbia insegnato nulla!

Anche noi come congregazione, singole e comunità, ci sentiamo interpellate da questo, perché mai come in questo tempo la passività può essere grande nemica. Come abbiamo vissuto questo tempo? Certamente inizialmente ci ha abitate la paura del contagio, per tutte, come ogni persona abbiamo guardato a questo nemico invisibile interrogandoci su cosa stava capitando, consapevoli di non trovare risposte… Inizialmente ci ha abitate una paura maggiore per le sorelle presenti nella struttura sanitaria, per la comunità in diocesi di Bergamo, per quelle dedite ad accoglienze senza la possibilità di aiuto di volontari. Con il diffondersi della pandemia il timore per le sorelle presenti in terre di missione quali il Mozambico e in particolare l’Amazzonia, dove il virus tuttora sta devastando popolazioni. In tutto questo esperienze di vicinanza e di condivisione, come la presenza dei giovani volontari del servizio civile che non hanno mai interrotto la loro attività dentro le strutture socio-sanitarie, è stato di grande sostegno, aiuto e consolazione (Vita Nuova 2/2020, pp. 12-13). Abbiamo insomma condiviso la paura di tutti, la fede nel Dio della vita sempre presente nelle avversità, lo sguardo all’altro, sorella e fratello nel dolore, nella malattia, nella restrizione. Lo sentiamo dalla viva voce di alcune sorelle.

Comunità Mater misericordiae, Zandobbio (BG)

Noi come comunità di Zandobbio in terra bergamasca abbiamo vissuto da vicino, sulla nostra pelle, cosa voleva dire soffrire, patire con gli altri, condividere dolore, desolazione, paura, sentire l’elenco di nomi e di volti conosciuti che non ce l’hanno fatta a superare il contagio dell’invisibile virus.

Assieme alla paura e allo scoraggiamento nei nostri cuori “abitava” la preghiera, sollecitata anche da continue richieste tramite messaggi e telefonate di persone delle nostre parrocchie che ci chiedevano parole di speranza, di accompagnamento, tempi e spazi di ascolto e di condivisione del proprio dolore e sofferenza.

Noi suore attingevamo forza e sostegno dalla grazia di poter partecipare alla S. Messa quotidiana, con l’ascolto-meditazione della Parola di Dio commentata dal nostro Parroco don Marco: un sostegno reciproco nel dialogo fraterno, durante il quale si rifletteva insieme sulle modalità più efficaci per mostrare vicinanza e sostegno alla gente provata delle nostre parrocchie.

Che cosa abbiamo imparato da questo tempo vissuto: il saper valorizzare il dono delle relazioni, il dono del tempo per accrescere nella fiducia nel nostro Dio che mai abbandona il suo popolo, il senso del limite e vulnerabilità del nostro essere e, quando ci è stata data la possibilità di partecipare come comunità cristiana alla S. Messa domenicale, l’abbiamo vissuta come un grande dono di comunione da far crescere tra di noi!

Sr. Livia, sr. Giannina e sr. Terelisa

Sono molteplici le esperienze e varie nella loro tipologia. Dopo il vissuto di una comunità ascoltiamo la riflessione sul vissuto personale, comunitario e di servizio di sr. Celina Pozzan, dello Sportello Donna della Caritas vicentina.

Suor Celina Pozzan, Caritas Vicenza

Ho fatto esperienza per la prima volta nella mia vita di una pandemia e per lo più globale! Ho vissuto il periodo del lockdown come un improvviso collasso del nostro senso di sicurezza esistenziale. Abituati a vivere nelle sicurezze del nostro sistema sanitario, abbiamo constatato la fragilità della medicina e della scienza e nello stesso tempo visto tanta generosità degli operatori sanitari. Mi sentivo travolta dalle continue notizie dei tanti morti, amici, conoscenti e non, che morivano da soli senza la vicinanza dei propri cari. Anche nella mia mente era persistente l’idea di potermi ammalare e morire da sola se il virus mi prendeva. Sì, ho fatto l’esperienza di sentire la morte vicina e provavo a prepararmi. Alternavo angoscia e attenzioni a volte ossessive di prudenza per non prendere il virus, ma in fondo al cuore sentivo che la mia vita era già donata a Qualcuno. Questa emergenza mi ha costretta a diminuire e poi sospendere il mio servizio al centro di ascolto. Il mio timore era quello di perdere il senso di umanità e la relazione con le persone, ma poi ho riscontrato il contrario. La comunicazione continua tramite il lavoro di rete, cellulare e computer, con vari soggetti del territorio, ha garantito alle persone, donne e famiglie, ambito del mio servizio, una presenza costante e di qualità, individuando anche situazioni difficili non conosciute. Ho sperimentato maggiore collaborazione, presenza e impegno da parte di tutti gli operatori sociali per portare avanti la grande nave dei servizi alla persona (come diceva Papa Francesco). Più volte sono stata piacevolmente sorpresa della relazione con le donne e le famiglie, le quali pur vivendo situazioni di estrema povertà e solitudine mi chiamavano per chiedere come stavo o come stava la mia comunità. Ecco, questa emergenza mi ha messo nella stessa posizione di vulnerabilità delle persone che chiedono il mio aiuto. Il coronavirus ci ha costretto a cambiare le modalità di vicinanza, ma ha dato dignità alle relazioni reciproche, perché ci siamo riconosciuti in una comune vulnerabilità e in una comune umanità.

I provvedimenti restrittivi hanno richiesto alla comunità di riorganizzare tempi e modi di vita interna e riprogettare impegni apostolici.  Soprattutto nella fase iniziale dell’emergenza la gestione della paura, delle preoccupazioni, dei limiti derivanti dall’epidemia ha contribuito a creare disagi e diffidenze nelle relazioni fraterne: le persone anziane e con patologie si sentivano a rischio di essere direttamente colpite da virus; chi doveva uscire per necessità era a propria volta esposta al contagio e alla possibilità di far entrare il virus in comunità. Ma era importante fare il “reciproco bene”, necessario in quel momento come tutti. Quello che ha messo in equilibrio il rapporto tra paura, limiti e speranza è stata la preghiera di invocazione e di supplica al Signore e a Maria, nostra tenerissima Madre, insieme e in comunione con tutta la Chiesa e l’umanità intera. Di fronte al dilagare della pandemia globale occorreva tenere allargato il nostro cuore, per “abbracciare tutto il mondo”, accogliendo le sue lacrime e le sue speranze. Il “mandato” di servire il carisma di M. Giovanna non poteva andare in lockdown, perciò la comunità ha continuato a sostenere delle donne con bambini che sapevamo in gravi difficoltà, e collegate in rete ognuna ha garantito spazi di ascolto e di vicinanza con le persone del proprio ambito di impegno. I vari Decreti nazionali e regionali hanno limitato i consueti gesti di cura, ci hanno imposto di abbandonare il fare e riappropriarci dell’essere. Il virus ci ha provocate ad un cambiamento che riguarda noi stesse, le nostre modalità di lavoro apostolico. Gli interrogativi e le riflessioni che i giorni complicati dell’emergenza, hanno sollevato sono molti anche per le nostre comunità. E resta ancora difficile tirare i fili per un insegnamento per un diverso stile di vita anche per noi.

Suor Celina Pozzan

Dall’Italia al Mozambico: continuando ad “ascoltare” la vita della nostre consorelle, diamo spazio in questo articolo alle due comunità africane, mentre l’esperienza del Brasile è già presente nel sito di Congregazione (https://www.orsolinescm.it/coronavirus-in-brasile-notizie-da-roraima/), così come le esperienze di altre comunità.

Comunità Esperança, Dondo

Il Mozambico il 22 marzo scorso ha registrato il suo primo caso di paziente positivo al Covid-19, flagello che ha colpito l’intero pianeta, nessun paese escluso; ma il coronavirus e tutto il suo corollario va relativizzato dentro un contesto complesso come quello africano, dove i problemi sono molteplici.

Lo scorso anno il Mozambico ha occupato il quinto posto al mondo tra i paesi con il numero piú alto di morti per malaria e per tubercolosi, si trova tra i primi al mondo anche per tasso di incidenza dell’HIV (AIDS) ed é ancora tra i primi al mondo per denutrizione cronica infantile.

Nello stesso anno due provincie, Sofala (la nostra) e Cabo Delgado, sono state flagellate rispettivamente dai cicloni Idai e Kenneth, in cui sono ancora visibili i segni della devastazione, senza contare quelli invisibili che abitano i cuori e le menti di chi si é trovato ad avere ancora meno del niente che aveva.

Altri problemi come il terrorismo Jiiadista che avanza, sempre nella provincia di Cabo Delgado, ricca di risorse naturali e minerarie ma con la più grande percentuale di povertà del Paese, dove ogni giorno migliaia di sfollati fuggono dalla violenza dei guerriglieri che uccidono uomini donne e bambini, bruciano le loro misere abitazioni, distruggono i centri di salute e di telecomunicazione arrivando ad attaccare anche le missioni.

Lo sfruttamento incondizionato di risorse minerarie e di giacimenti di gas, la corruzione incontrastata che governa il territorio, la fragilità sistematica dello stato inesistente nei servizi base come l’educazione, le vie di comunicazione e la sanità: queste le piaghe già esistenti prima dell’arrivo del Covid-19 che vede aumentare esponenzialmente i casi positivi e nello stesso tempo aumenta anche la situazione di precarietà e miseria degli strati più poveri.

Inizialmente abbiamo guardato la realtà con sgomento e paura, accogliendo le notizie catastrofiche che arrivavano dall’Italia, e dal resto del mondo, preparandoci ad affrontare anche qui la stessa situazione con previsioni di scenari anche peggiori constatando la fragilità del sistema sanitario nazionale. La prevenzione risultava l’unica soluzione possibile: lavarsi le mani, proteggere e proteggersi con la mascherina e mantenere le distanze… qui però mancano le mascherine e i disinfettanti, il paracetamolo è l’unico farmaco (quasi sempre) reperibile e risulta impossibile mantenere il distanziamento consigliato… Non c’è stato un vero e proprio lockdown ma un provvedimento chiamato “stato di emergenza” che prevedeva la chiusura di chiese, di scuole, di luoghi di divertimento come cinema, teatro, sospesi i concerti, le competizioni sportive.

Per sostenere la fede del suo popolo, la Chiesa diocesana si è fatta presente e vicina attraverso i diversi mezzi di comunicazione ma soprattutto incentivando e motivando, con dei sussidi, la preghiera fatta in famiglia, come tante piccole Chiese domestiche diramate in tutta la diocesi. Anche qui è risuonato ovunque lo slogan: “Fique em casa” (state in casa) anche se risulta impossibile farlo soprattutto per chi, donne, uomini e spesso anche bambini cercano di sostenere ogni giorno la famiglia attraverso piccoli lavori in nero o la vendita di alcuni prodotti. “Fique em casa”: luoghi di culto e scuole chiuse mentre mercati, negozi e strade pullulano di persone.

“Fique em casa”: ma per andare al lavoro, in ospedale o in città, per muoversi si deve prendere la chapa: pulmino che carica anche più di 20 persone e che ora per legge ne deve caricare solo 12! con code interminabili nelle stazioni e fermate.

“Fique em casa”: ma appena spunta la debole luce mattutina donne di ogni età, giovani, mamme e nonne, quest’ultime letteralmente piegate dal peso e dalla fatica, si incamminano verso il loro piccolo appezzamento di terreno per la piantagione, al fine di sostentare la famiglia. Il Mozambico importa la maggior parte delle materie prime dal Sud Africa che sta registrando il più alto numero di infetti e di morti di tutta l’Africa sub sahariana e per questo i prossimi mesi si prevedono difficili per mancanza di alimenti basici.

“Fique em casa”: oramai al quarto mese di confinamento il paese intero ha sempre meno paura del virus e sfida quotidianamente il decreto presidenziale uscendo di casa, spesso senza mascherina, dimostrando di avere già deciso che con questa pandemia si deve convivere.

Accompagniamo la storia e la vita di questo popolo a cui sentiamo di appartenere, pregando con e per loro, ma soprattutto camminando con loro, condividendo le gioie e le fatiche che affrontano quotidianamente e da sempre, sostenendo piccoli passi e cercando nella complessità degli avvenimenti di trovare modalità e soluzioni nuove per trasformare la realtà.

Sr. Alberta, sr. Lucia e sr. Valentina

Comunità Jubilar, Beira

 Descriviamo l’esperienza degli inizi della pandemia con l’immagine di una persona che nel pieno della corsa d’improvviso è costretta a fermarsi e, con la necessaria riflessione si chiede: cosa succede? Cosa faremo? Cosa possiamo imparare da questa esperienza? Domande aperte che aprono cammini illuminati dalla fede e dalla fiducia in una Presenza.

Fede – Fiducia – Presenza

L’assenza delle celebrazioni africane segnate dalla festa, dai canti, con danze e musica festosa, ci ha chiesto di recuperare la dimensione interiore della fede, la comunione spirituale nella Presenza del Dio vicino, della fiducia. Ci viene chiesto un serio esercizio di pazienza come pacificazione interiore e come uno ‘’stare dentro’’ sapendo che Dio è presente. Siamo state sostenute dalle quotidiane omelie di papa Francesco trasmesse dalla cappella di S. Marta, diventate nutrimento e forza, orientamento e conforto.

I momenti di preghiera e le liturgie esclusivamente realizzate nella nostra cappella o nel nostro giardino, hanno chiesto impegno e cura nel prepararle, ma anche crescita nella fraternità, come pure la recita quotidiana del rosario si è rivelata un bell’appuntamento comunitario con Maria.

Il fermarsi delle attività e dei programmi pastorali, di servizio all’università, di formazione, all´inizio ha fatto nascere la sensazione di non poter esprimere il servizio e la missione, mentre hanno permesso di recuperare la dimensione della ‘’vita come missione’’. Tutto questo sostenuto da una certa flessibilità nell’adattarsi alla situazione che continuamente cambiava, ha permesso uno sguardo:

Dentro la comunità abbiamo vissuto esperienze di sororità nel recupero dello stare insieme nella gratuità attraverso alcuni lavori manuali, come riorganizzare la piccola biblioteca, selezionare le  riviste vecchie, schedare i libri; come pure la cura del bello, attraverso il giardinaggio.

All’università, lo stato di emergenza ha prodotto la chiusura dell’UCM,  tutto è rimasto bloccato.  É entrata in gioco la creatività: lezioni reimpostate e reinventate recuperando alcune abilità come l’uso della tecnologia con le lezioni online.  Ma abbiamo sentito importante mantenere viva la speranza, la fede, come per esempio una semplice frase di speranza fatta circolare online agli studenti. Il Dio della fede presente nella realtà interpellava a incontrare forme per essere un ponte di speranza, mantenerla viva, conservando il contatto umano. Dentro a questo sguardo era importante, come dice Madre Giovanna, dare vita, dare speranza, recuperare il lavoro e la riflessione fatta insieme.  Si è dato vita a gruppi di ricerca e, con i giovani nasce l’idea di una ricerca su come hanno vissuto la relazione con il coronavirus, le persone e lo studio all’università.

A livello sociale l’aumento della povertà ha fatto a volte nascere un senso di impotenza.

Davanti ai tanti poveri che chiedevano aiuto, destiniamo una percentuale della comunità per comprare alimenti e materiale di igiene, detersivo, sapone … per i poveri. Diamo anche le mascherine prodotte dalle donne del gruppo Maos Unidas. La proposta di fare 500 mascherine, ha fatto crescere nelle donne il senso fraterno come possibilità di aiutare altre persone in necessità. Inoltre consapevoli del grido di aiuto del popolo di Cabo Delgado – la provincia al nord del Mozambico martoriata da violenze perpetrate da supposte fazioni integraliste islamiche – diamo coperte e vestiario, in questo inverno particolarmente freddo. Dentro ad uno sguardo globale, leggiamo questo tempo come un evento apocalittico, la fine di un certo modo di vivere, forse un grido davanti ad alcune realtá che sono chiamate a ‘’morire’’ e altre che a misura più umana devono prenderne il posto.

Sr. Anna, sr. Margherita, sr. Rita e sr. Raffaella

A cura di sr. Maria Luisa Bertuzzo

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