Cercare…lievito e luce

02
Ago

Sono indicazioni molto significative che possono essere lette in vari modi a partire dall’analisi del contesto in cui Gesù le ha raccontate ma anche, soprattutto per quanto riguarda il primo testo del buon pastore, dalle diverse sottolineature che gli autori Luca e Matteo fanno nel loro racconto.

La parabola del buon pastore, una delle più conosciute e citate soprattutto per l’identificazione di quel pastore buono con Gesù, è collocata da Luca (15,4-7) all’interno del conflitto in atto tra Gesù e gli scribi e farisei che mormoravano contro di lui a causa del suo comportamento nei riguardi dei peccatori: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (15,2). L’atteggiamento dei farisei manifesta l’immagine di Dio che essi portano dentro di sé: un Dio custode dell’ordine, della legge e di quella che era, secondo loro, la giustizia divina. Gesù mostra invece il volto misericordioso di un Dio che ama così tanto tutti i suoi figli e le sue figlie da considerare ciascuno come fosse unico, tanto che il perderlo sarebbe come perdere tutto e ritrovarlo è come recuperare tutto.

Il brano parallelo di Matteo è invece inserito nel cosiddetto “Discorso sulla vita nella Chiesa”, e serve ad illustrare uno dei doveri pastorali più importanti dei responsabili delle comunità cristiane Che cosa vi pare?” (18,12)  perché possano assumere sempre più gli stessi sentimenti del Padre che ha cura particolare per tutti, ma specialmente per chi è più debole e fragile; perché la sua volontà è che ognuno si riconosca responsabile della possibilità che l’altro si scopra figlio/figlia.

La stessa domanda introduce nei due testi la parabola: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”. È una domanda paradossale che sembra mettere in dubbio la saggezza del pastore. Ma l’insegnamento che Gesù vuole darci, ci indica papa Francesco, “è che nessuna pecora può andare perduta. Il Signore non può rassegnarsi al fatto che anche una sola persona possa perdersi (…) Dio non conosce la nostra attuale cultura dello scarto, in Dio questo non c’entra (…) Dio ama tutti, cerca tutti: uno per uno! (…) Nessuna distanza può tenere lontano il pastore e nessun gregge può rinunciare a un fratello”.

prodigi promessi non si realizzeranno più, offre la stessa quantità di pane all’angelo del Signore che gli ordinava di affrontare Madian e salvare Israele. Lui, il “più piccolo nella casa del padre e con la famiglia più povera di Manasse”! E infine, nel primo libro di Samuele 1,24 troviamo ripetuta la stessa quantità di farina offerta da Anna al tempio dove conduce il figlio Samuele per dedicarlo a Dio, rispettando così la promessa che aveva fatta al Signore pregandolo affinché lei, sterile da tanti anni, riuscisse finalmente ad avere un figlio. Sono tre racconti dell’Antico Testamento accomunati da un aspetto particolare: qualcosa ritenuto impossibile che diventa invece realtà. Nelle parole di Gesù, che riportano alla mente queste diverse situazioni, è quindi evidente la realizzazione della promessa del Regno.

L’ultima citazione di papa Francesco è della “città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli”, presente in Matteo 5,14 dopo la proclamazione delle Beatitudini. Questa città che come luce del mondo stava sul monte era, nella cultura del tempo, Gerusalemme, la città di Dio, quella stessa città che deciderà però di uccidere il Figlio fuori dalle mura, con il supplizio della croce riservato a coloro che venivano definiti i maledetti da Dio.

Con Gesù non ci sono più una città o un tempio come luoghi privilegiati, ma persone, discepoli e discepole, che devono andare: “Siete voi la luce del mondo” (5,14). Offrire, come dice papa Francesco, e non imporre, la luce che ci abita o che ci dovrebbe abitare. Non più chiesa o comunità cristiana che si sente faro del mondo, ma lanterna, fiaccola nel mondo, che è l’immagine che ci consegna Francesco. La fiaccola fa luce là dove alcuni uomini e donne stanno vivendo, magari a fatica, la loro esistenza. È una luce che serve per poter proseguire il cammino, illumina una parte di realtà e di umanità, quella parte che può raggiungere perché si trova lì in mezzo e non in alto o lontana. Illumina le speranze e le gioie degli esseri umani, ma anche le loro tristezze ed angosce (GS 1); accompagna, senza chiudersi o estraniarsi, anche i processi culturali e sociali che caratterizzano il nostro tempo, a partire dall’esperienza condivisa di popolo universale. E se siamo in cammino, se davvero assumiamo come credenti questa modalità del camminare insieme, facciamo esperienza che la strada può aprirsi solo gradualmente, un po’ alla volta, con infinita pazienza. La Lumen fidei ci ricorda che “la fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi e questo basta per il cammino”.

Non stancandoci di andare alla ricerca di chi si è perduto o abbiamo allontanato; accettando e anzi scegliendo di entrare dentro alle situazioni in cui viviamo, impastando l’annuncio fino a scomparire per far crescere il Regno fra gli esseri umani; rischiarando con la nostra fiducia in Dio e nella vita, passo dopo passo, il cammino nostro e di tutti i nostri fratelli e sorelle, possiamo condividere con tutti e con ciascuno il Vangelo che “non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno” (EG 237).

La parabola del lievito che fermenta la pasta, nei pochi versetti di Matteo 13,33 e Luca 13,20-21, richiama un’azione abituale delle donne che impastavano il pane, ed è usata da Gesù per raffigurare il Regno di Dio. Una prima riflessione nasce dall’immagine di quel lievito che è nascosto e che scompare, mescolandosi, per far lievitare tutta la pasta, ma una seconda lettura è possibile a partire dalla quantità di farina nominata ?” circa 40 chili ?” e dalla memoria delle Scritture. In particolare, questo stesso riferimento si trova in tre diversi episodi dell’Antico Testamento.

In Genesi 18,6 Abramo chiede alla moglie Sara di impastare tre misure di farina per fare focacce da offrire ai tre uomini che a Mamre annunciarono a lui e a Sara che avrebbero avuto un figlio nonostante la loro vecchiaia. Ancora, in Giudici 6,19 Gedeone, che guardando la realtà che lo circonda è convinto che Dio abbia abbandonato il popolo e che tutti i

prodigi promessi non si realizzeranno più, offre la stessa quantità di pane all’angelo del Signore che gli ordinava di affrontare Madian e salvare Israele. Lui, il “più piccolo nella casa del padre e con la famiglia più povera di Manasse”! E infine, nel primo libro di Samuele 1,24 troviamo ripetuta la stessa quantità di farina offerta da Anna al tempio dove conduce il figlio Samuele per dedicarlo a Dio, rispettando così la promessa che aveva fatta al Signore pregandolo affinché lei, sterile da tanti anni, riuscisse finalmente ad avere un figlio. Sono tre racconti dell’Antico Testamento accomunati da un aspetto particolare: qualcosa ritenuto impossibile che diventa invece realtà. Nelle parole di Gesù, che riportano alla mente queste diverse situazioni, è quindi evidente la realizzazione della promessa del Regno.

L’ultima citazione di papa Francesco è della “città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli”, presente in Matteo 5,14 dopo la proclamazione delle Beatitudini. Questa città che come luce del mondo stava sul monte era, nella cultura del tempo, Gerusalemme, la città di Dio, quella stessa città che deciderà però di uccidere il Figlio fuori dalle mura, con il supplizio della croce riservato a coloro che venivano definiti i maledetti da Dio.

Con Gesù non ci sono più una città o un tempio come luoghi privilegiati, ma persone, discepoli e discepole, che devono andare: “Siete voi la luce del mondo” (5,14). Offrire, come dice papa Francesco, e non imporre, la luce che ci abita o che ci dovrebbe abitare. Non più chiesa o comunità cristiana che si sente faro del mondo, ma lanterna, fiaccola nel mondo, che è l’immagine che ci consegna Francesco. La fiaccola fa luce là dove alcuni uomini e donne stanno vivendo, magari a fatica, la loro esistenza. È una luce che serve per poter proseguire il cammino, illumina una parte di realtà e di umanità, quella parte che può raggiungere perché si trova lì in mezzo e non in alto o lontana. Illumina le speranze e le gioie degli esseri umani, ma anche le loro tristezze ed angosce (GS 1); accompagna, senza chiudersi o estraniarsi, anche i processi culturali e sociali che caratterizzano il nostro tempo, a partire dall’esperienza condivisa di popolo universale. E se siamo in cammino, se davvero assumiamo come credenti questa modalità del camminare insieme, facciamo esperienza che la strada può aprirsi solo gradualmente, un po’ alla volta, con infinita pazienza. La Lumen fidei ci ricorda che “la fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi e questo basta per il cammino”.

Non stancandoci di andare alla ricerca di chi si è perduto o abbiamo allontanato; accettando e anzi scegliendo di entrare dentro alle situazioni in cui viviamo, impastando l’annuncio fino a scomparire per far crescere il Regno fra gli esseri umani; rischiarando con la nostra fiducia in Dio e nella vita, passo dopo passo, il cammino nostro e di tutti i nostri fratelli e sorelle, possiamo condividere con tutti e con ciascuno il Vangelo che “non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno” (EG 237).

Donatella Mottin

 

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